Ricevo e pubblico questo articolo proveniente dal sito Unavox
La regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X
Eccoci arrivati a ridosso della festa dei SS. Pietro e Paolo.
In genere, a partire dalla fine di giugno, molte strutture ecclesiastiche si concedono una sorta di riposo. Prelati, officiali e seminaristi vanno in vacanza, o quasi. Una sorta di rallentamento delle annuali incombenze.
Proprio a ridosso di questa data sono accadute alcune cose notevoli. Per tutte ricordiamo la pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, avvenuta il 7 luglio, senza però dimenticare la data del 2 luglio, giorno della “grande scomunica” precipitosamente inflitta dalla misericordiosa “Chiesa del Concilio” ad uno dei suoi vescovi: Mons. Marcel Lefebvre, reo di coltivare “una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione” e contraddittoria perché “si oppone al Magistero universale della Chiesa, di cui è detentore il Vescovo di Roma e il Corpo dei Vescovi.” (Motu Proprio Ecclesia Dei del 2 luglio 1988).
In quella occasione, Giovanni Paolo II, riferendosi alla consacrazione dei quattro nuovi vescovi della Fraternità San Pio X, sottolineava che “ Non si può rimanere fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona dell'apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell'unità nella sua Chiesa.” Una affermazione che centra il problema che da diversi anni infiamma le passioni di molti cattolici: il valore primario dell’unità della Chiesa.
Non si tratta certo di una cosa di poco conto, ma spesso abbiamo dovuto constatare che questa istanza, non solo legittima, ma anche sacrosanta, ha finito col prendere il sopravvento su quella che è sempre stata la suprema legge della Chiesa: la salvezza delle anime.
Quando l’unità della Chiesa finisce con l’essere perseguita anche a scapito del bene delle anime, è inevitabile chiedersi di quale Chiesa si stia parlando.
In questo giugno 2011, ecco che ritorna un altro motivo ricorrente del tutto connesso con questa nostra premessa: la regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X… lo esige l’unità della Chiesa.
Ora, questa questione, che sembrerebbe pronta per essere affrontata adesso che si concludono i noti colloqui fra la Santa Sede e la Fraternità, è in realtà vecchia di più di 10 anni.
Era l’anno 2000 quando più di seimila fedeli cattolici provenienti dai cinque continenti si riunirono a Roma, per lucrare le indulgenze del Giubileo, sotto l’egida della Fraternità San Pio X e al seguito dei suoi quattro vescovi “scismatici”. In quella occasione, con grande sorpresa di chi aveva sempre dato poco peso ai “ribelli di Lefebvre”, si scoprì che esistevano dei bravi cattolici che rifiutavano il Concilio e ciò nonostante pregavano per il Papa e dimostravano una compostezza e una dignità ormai andata perduta negli ordinari raduni ecclesiastici del post-concilio. Tanta fu la sorpresa che l’allora Prefetto della Congregazione per il Clero, il card. Castrillón, invitò a colazione i quattro vescovi “scismatici” per conoscerli meglio. Da lì partì l’iniziativa del cardinale per riuscire a trovare una composizione allo strappo del 1988. E partirono le prime proposte di regolarizzazione, delle quali si continua a parlare ancora oggi.
Tra alti e bassi, da allora la Fraternità ha tenuto regolari rapporti con Roma, ed è in questo contesto che sono nate le note richieste della Fraternità di liberalizzazione dell’uso del Messale tradizionale e di revoca della scomunica, il tutto in concomitanza con le reiterate sollecitazioni di Roma perché accettasse una regolarizzazione canonica.
Il card. Castrillón riuscì, nel 2001, a sanare la posizione canonica del gruppo di Campos, creando una Amministrazione Apostolica personale, e da subito pensò di poter adottare una decisione simile anche per la Fraternità: Amministrazione Apostolica o Prelatura Personale.
Quando nell’aprile del 2005 fu elevato al Soglio Pontificio il cardinale Ratzinger, Benedetto XVI si affrettò a convocare a Roma, in agosto, il Superiore Generale della Fraternità, Mons. Fellay, a dimostrazione che voleva avviare a soluzione l’annosa questione che lui stesso aveva trattato come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede direttamente col compianto Mons. Lefebvre. Com’è noto il lavoro del card. Ratzinger e di Mons. Lefebvre non portò allora ad alcuna conclusione, nonostante la firma del famoso “protocollo” del 1988, che Mons. Lefebvre denunciò subito per il tentativo di Roma di costringerlo alle corde per mezzo di una consacrazione episcopale pilotata. È risaputo che il card. Ratzinger ha sempre rimpianto il mancato accordo, al pari, per esempio, del mancato chiarimento sul famoso “terzo segreto” di Fatima, nonostante e forse anche grazie alla nota dichiarazione sulla rivelazione del terzo segreto del 2001.
Il card. Ratzinger, divenuto Benedetto XVI, conosceva bene la questione ed era perfettamente al corrente delle richieste avanzate dalla Fraternità fin dal 2000, come era perfettamente conscio del fatto che non bastava la scomunica per definire una questione così complessa come quella delle tante riserve espresse da più parti, e non solo dalla Fraternità, nei confronti del Concilio. Occorreva decidersi a trovare una soluzione, non tanto per cedere alle richieste della Fraternità, quanto per mettere dei punti fermi sulle annose questioni dell’ingiustificato abbandono della liturgia tradizionale e del pericoloso declino in cui si era venuta a trovare la Chiesa a partire dal Concilio.
Da allora, le offerte di composizione canonica alla Fraternità, presentate direttamente o indirettamente, si sono moltiplicate, e quasi ogni anno è sembrato che ci fosse già pronto uno schema di accordo che bastava sottoscrivere.
Intanto, due anni dopo essere diventato Papa, Benedetto XVI sciolse il primo nodo importante: la Messa tradizionale non è mai stata abolita, quindi ogni sacerdote può celebrarla liberamente. Fu il Motu Proprio Summorum Pontificum, e fu la soluzione di un incredibile equivoco protrattosi per quasi 40 anni, come se non fosse risaputo che la Chiesa non poteva cancellare duemila anni di liturgia con un colpo di mano, sia pure avallato da un Concilio e da un Papa.
Era inevitabile che qualcuno gridasse allo scandalo, poiché sembrò che il Papa avesse ceduto alla prima delle richieste della Fraternità. In realtà il Papa sapeva benissimo che Paolo VI aveva permesso un abuso e lo aveva sottoscritto, ma ancor meglio sapeva che, senza quella soluzione, il problema della Messa tradizionale sarebbe divenuto il grande problema della Chiesa. Altro che atto scismatico di Lefebvre, come aveva scritto Giovanni Paolo II, ormai si correva il rischio di vedere crescere due chiese in una… meglio allora due liturgie nella stessa Chiesa.
Ovviamente, la pubblicazione del Motu Proprio servì a fare ulteriori pressioni sulla Fraternità, perché, si diceva, di fronte alla avvedutezza e alla magnanimità del Papa era inconcepibile che questa si ostinasse ancora a non accettare una qualche forma di regolarizzazione canonica. Si incominciarono a contare a migliaia coloro che gridavano all’incomprensione: … ma come, adesso la Messa ce l’abbiamo!
Il fatto è che, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per un gran voglia di vivere tranquilli, tanti chierici e laici facevano finta di non sapere che la Chiesa non era in crisi per la mancanza della Messa tradizionale o per l’ostinazione della Fraternità, bensì per la deriva dottrinale che la pervade da più di 40 anni sulla base del Concilio e dei suoi frutti.
Quando poi quest’appunto veniva avanzato dalla Fraternità… àpriti cielo! Ma che pretese! Ma chi si credono di essere! E tutti trovavano comodo scaricare sulla Fraternità la responsabilità di una critica che invece era nel cuore di tanti, prelati compresi.
Così, tra un’offerta di Roma e un rifiuto di Ecône, si giunse, ad appena un anno e mezzo dal Motu Proprio, alla remissione della scomunica. I quattro vescovi non sono più scismatici a partire dal 21 gennaio 2009. E giù illazioni, supposizioni, ipotesi, e ancora pressioni, sollecitazioni e progetti. Adesso sì… la Fraternità non ha più scuse, la generosità del Papa è tale che annulla ogni tergiversazione… che a questo punto diventa colpa grave!
Ecco l’accordo, firmatelo!
Peccato che il Papa, in quella occasione, si affrettò subito a precisare che, sì la scomunica non ce l’hanno più, ma quei vescovi non possono esercitare legittimamente il loro ministero a causa della loro posizione canonica irregolare, derivata dalle loro critiche all’andamento dottrinale sorto col Concilio.
Come dire: attenzione! Sono vescovi della Chiesa cattolica, sono in comunione con me che sono il Papa, ma non possono fare i vescovi.
A chi sembrerà eccessivo un tal modo di presentare la cosa e tenuto conto che non è questa la sede per fare un discorso “tecnico”, ricordiamo solo che la riserva espressa dal Papa si basa sul fatto che questi vescovi, sebbene non più scismatici, mancano di giurisdizione formale, cioè non hanno canonicamente un loro ambito entro il quale esercitare il ministero che è proprio del vescovo. Ogni vescovo è tale in quanto capo di un pezzo della Chiesa, e la Fraternità non sarebbe ancora, canonicamente, un pezzo della Chiesa. Chi si intende un po’ di giurisprudenza capisce che stiamo parlando, non di cose serie, ma di cose da avvocati, che è tutto dire.
Ci si permetta l’ingenuità di una domanda: ma quanti vescovi ci sono nella Chiesa, e in particolare a Roma, che non sono a capo di un pezzo di Chiesa e a cui non si dice che non possono esercitare legittimamente il loro ministero? Parliamo di quelli che hanno una giurisdizione solo sulla carta, una giurisdizione pro forma, ma in realtà sono vescovi di niente e di nessuno, contrariamente ai quattro vescovi della Fraternità che sono vescovi di una struttura ecclesiale con sacerdoti e religiosi e presiedono alla cura delle anime di qualche milione di fedeli.
La Chiesa ha tanti misteri, ma a volte i preti esagerano!
Non passano neanche 3 mesi, ed ecco che viene annunciato che la Santa Sede aprirà un tavolo di discussione con la Fraternità, a partire da ottobre 2009, per cercare di mettere a fuoco tutta la problematica sollevata dal Concilio. Il comunicato emesso dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei subito dopo lo svolgimento del primo colloquio precisava: “esamineranno le questioni relative al concetto di Tradizione, al Messale di Paolo VI, all’interpretazione del Concilio Vaticano II in continuità con la Tradizione dottrinale cattolica, ai temi dell’unità della Chiesa e dei principi cattolici dell’ecumenismo, del rapporto tra il Cristianesimo e le religioni non cristiane e della libertà religiosa”.
Altro che “incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione”, come pensava Giovanni Paolo II, qui si tratta di ben altro, dice Roma, si tratta di far luce su una marea di questioni oscure sorte a partire dal Concilio e che interessano aspetti essenziali della vita della Chiesa e della fedeltà alla dottrina cattolica.
Tutte le opinioni possono pure essere espresse, ma il fatto rimane: la Santa Sede non sconfessa la Fraternità, dopo vent’anni dal supposto “scisma”, ma la convoca per discutere… per discutere del Concilio e dei suoi frutti.
Finalmente cade la maschera dell’ipocrisia, non di irregolarità canonica si trattava, non di indisciplina ecclesiastica, non di disobbedienza al Papa, ma di problemi veri, di problemi seri, di problemi relativi alla liturgia e alla dottrina cattoliche, problemi che richiedono un serio confronto tra la Congregazione della Dottrina della Fede, sotto la guida del Papa, e la tanto bistrattata Fraternità, per quarant’anni accusata di ogni sorta di ribellione. Problemi che toccano la suprema
legge della Chiesa: la salvezza delle anime.
E la regolarizzazione canonica?
Per anni la Fraternità ha dichiarato pubblicamente che non era una questione canonico-logistica che l’assillava, quanto una questione dottrinale, di fronte alla quale passava in secondo piano perfino la vita stessa della Fraternità, il riconoscimento dei suoi vescovi, la tranquillità pastorale dei suoi sacerdoti, la pace religiosa dei suoi fedeli. La fedeltà alla Tradizione della Chiesa, la fedeltà alla Verità, vale bene ogni sacrificio, ogni rinuncia, ogni vessazione, ogni ostracismo… ogni condanna.
Non regolarizzazione canonica, quindi, ma il riconoscimento da parte di Roma che il problema non sta nella Fraternità, ma in seno alla stessa Chiesa odierna.
Ciò nonostante, però, si ribadisce: liberalizzato l’uso del Messale tradizionale, rimessa la scomunica, svoltisi i colloqui dottrinali… non rimane che concludere un accordo per la regolarizzazione canonica della Fraternità.
Vediamo perché.
Primo punto: il Papa avrebbe dimostrato una generosità e un coraggio senza pari nel venire incontro alle richieste della Fraternità, liberalizzando l’uso della Messa tradizionale, rimettendo la scomunica e intavolando i colloqui con una vistosità e una esposizione impensabile e per molti inconcepibile.
Ma è davvero così?
Lo abbiamo scritto tante volte. Se il Papa avesse fatto tutto questo per venire incontro alle richieste della Fraternità, non si sarebbe dimostrato coraggioso e generoso, ma temerario e superficiale, poiché è evidente che nessuna Fraternità, sia pure in buona fede, può costringere il Papa a fare il bene di una parte piuttosto che il bene della Chiesa e delle anime. Se invece il Papa ha fatto ciò che ha fatto per il bene della Chiesa, come è logico e giusto che sia, allora temerari e superficiali sono coloro che parlano di coraggio e generosità del Papa, poiché cosa può fare un Papa se non perseguire il bene delle anime?
Secondo punto: il Papa ha avuto primariamente in vista l’unità della Chiesa. Ma si può perseguire l’unità della Chiesa liberalizzando l’uso del Messale tradizionale e sancendo per la prima volta in duemila anni un anomalo biritualismo foriero di confusione e di divisione? Si può perseguire l’unità della Chiesa annullando una sacrosanta scomunica nei confronti di un gruppo di ribelli che rifiutano il Concilio e contestano le decisioni del Papa? Si può perseguire l’unità della Chiesa dichiarando pubblicamente che il Concilio, i suoi documenti, la sua liturgia, la sua pastorale, sono da discutere, da riesaminare, da ridefinire, e proprio sulla base delle richieste partigiane dello stesso gruppo di ribelli?
Anche su questo abbiamo scritto tante volte. Se il Papa avesse fatto tutto questo per salvaguardare l’unità della Chiesa anche a costo della confusione, del riconoscimento dell’aperto dissenso e della messa in discussione di tutto ciò che il Magistero ha detto e fatto dal Concilio in poi, avrebbe dato prova di perseguire, non il bene delle anime, ma il raggiungimento di un fine pratico, più ideologico che teologico, poiché è evidente che seguendo questa logica si delineerebbe una Chiesa multiforme e prometeica, che sarebbe sì unita, ma avendo messo insieme tutto e il contrario di tutto, con il più grave nocumento possibile per il bene delle anime. Se invece il Papa ha fatto ciò che ha fatto per il bene della Chiesa e delle anime, come è logico e giusto che sia, allora non si potrà più parlare di priorità dell’unità, ma di necessità di fare chiarezza anche a costo di avviare la messa in mora della liturgia riformata, l’allontanamento dei vescovi che hanno arrecato danno alla Chiesa, la revisione di tutte le ambiguità e le deviazioni sorte nel Concilio e sviluppatesi nel post-concilio.
E si dovrà convenire che in tutto questo la Fraternità non è importante, se non per la funzione di stimolo che ha provvidenzialmente svolto in questi anni.
Terzo punto: la legittimazione canonica della Fraternità permetterebbe alla Chiesa di servirsi regolarmente e proficuamente dell’apostolato dei suoi chierici e dei suoi laici, che potrebbe essere svolto senza quegli impedimenti formali e psicologici che lo hanno limitato fino ad ora.
Ci ripetiamo, ma siamo costretti a invitare ad andare a rileggere ciò che abbiamo scritto in questi anni sull’argomento, ben consapevoli che anche le nostre considerazioni sono frutto di un punto di vista particolare che non può arrogarsi il diritto di valere per tutto e per tutti.
Quando, a partire dal 2000, il cardinale Castrillon inaugurò la nuova fase dei rapporti fra la Santa Sede e la Fraternità, una delle giustificazioni avanzate da più parti, in verità più borbottata che dichiarata, fu proprio questa del gran bene che poteva venire a tutti dall’immissione formale nel corpo ecclesiale di truppe fresche, agguerrite e ben armate da contrapporre alle schiere dei modernisti.
Questo ragionamento, che abbiamo avuto modo di ascoltare ripetutamente ai livelli più diversi, rivela però un problema gigantesco, tutto interno al corpo ecclesiale. Problema che nacque subito dopo la conclusione del Concilio, che assunse dimensioni inquietanti dopo l’entrata in vigore della liturgia riformata e che esplose con la diffusa attuazione dei disposti conciliari attraverso gli insegnamenti e le pastorali delle Congregazioni e delle Conferenze Episcopali.
Tolto il caso di Mons. Lefebvre e della sua Fraternità, e tralasciando i tanti sacerdoti che hanno subito l’ostracismo e i tanti fedeli che sono stati trattati per anni come degli appestati… tutta gente prevenuta e “ideologizzata”, ovviamente! Quanti vescovi e cardinali, quanti sacerdoti e quanti fedeli si sono alzati per denunciare a gran voce lo scandalo di una crisi della Chiesa generata dalla deriva dottrinale e dallo sfacelo liturgico? Quanti si sono esposti alla discriminazione e alla condanna pur di dire la verità? Quanti hanno pensato innanzi tutto alla conservazione del loro stato piuttosto che al loro dovere di stato? E quanti si sono industriati per giustificare anche l’ingiustificabile? E ancora quanti si sono trincerati dietro l’ubbidienza al Pontefice e ai vescovi? E poi quanti si sono accontentati di avere il beneficio esclusivo di qualche Messa settimanale e perfino mensile? E infine quanti si sono addirittura lanciati nella corsa ai primi della classe nel condannare la supposta disubbidiente protervia di Mons. Lefebvre e di tutta la Fraternità?
In questo contesto diventa davvero criptica la prospettiva del gran bene che potrebbe venire alla Chiesa dal passaggio della Fraternità alla legittimità canonica. Tranne che non si voglia pensare che ciò che non hanno fatto in 45 anni gli “altri”, ecco che miracolosamente lo potrebbero fare gli eredi di Mons. Lefebvre.
Piuttosto, bisognerebbe considerare seriamente se questa ottimistica prospettiva poggi su dati oggettivi e su dei precedenti in grado di sostenerla.
Nel 1988, sulla base delle stesse istanze della Fraternità, ma in disaccordo con la rottura col Papa decisa da Mons. Lefebvre con le consacrazioni episcopali, nacque la Fraternità San Pietro. Nel 2001 nacque l’Amministrazione Apostolica di Campos, convinta che fosse giunto il momento di condurre la battaglia dall’interno. Seguita, nel 2006, dall’Istituto del Buon Pastore, ormai certo che si fosse prodotto uno squarcio nel muro modernista, attraverso il quale irrompere nella compagine cattolica postconciliare e sbaragliare il nemico. Senza contare altre piccole realtà, cosiddette “Ecclesia Dei”, tra le quali spicca per diversi motivi quella dei benedettini di Le Barroux.
Ebbene, dall’esame del lavoro svolto da questi Istituti, quale bilancio si può stilare, tale da giustificare la fondatezza della detta prospettiva?
Tralasciando la parentesi dello sconquasso del 2000, voluto da Roma per stroncare ogni velleità di fedeltà agli scopi fondativi, la Fraternità San Pietro ha finito col limitarsi alla diffusione della Messa tradizionale, dove e come ha potuto, forse seguendo le limitate istanze di una parte del mondo tradizionale anglosassone.
Tolti i primi anni di super attivismo internazionale del suo vescovo, l’Amministrazione Apostolica di Campos non ha prodotto alcuna riflessione minimamente paragonabile a quelle del suo padre spirituale, il compianto Mons. De Castro Mayer, né risulta che abbia inciso minimamente sull’andamento delle diocesi del Brasile, né tampoco su quella della stessa diocesi di Campos.
L’Istituto del Buon Pastore, seppure ancora troppo giovane perché si possa fare un bilancio, dà l’impressione che ancora non abbia deciso bene quale mestiere voglia fare da grande, visto l’alternarsi di titubanze e di decisioni, forse dovute all’incalzare degli avvenimenti.
Se poi si volge lo sguardo verso Le Barroux, si resta colpiti dalla forza con cui i benedettini tradizionali difendono e veicolano la liturgia tradizionale, ma si resta sconcertati dalla pari forza con cui alcuni di loro difendono la liturgia moderna e predicano e praticano le novità dottrinali partorite dal Concilio e allevate dal post-concilio. Ma questo è un discorso che, a Dio piacendo, faremo un’altra volta.
Nell’insieme, quindi, tolti i casi personali di chierici che si sono espressi anche con coraggio e decisione, l’esempio di questi Istituti porta a smentire ogni ottimismo circa la prospettiva in questione. Tutto parla del contrario, quasi a certificare che la legittimità canonica all’interno di una Chiesa che non è ancora guarita dall’infezione conciliare non produce alcun effetto positivo, anzi porta questi Istituti ad una sorta di omologazione, a subire una osmosi pericolosa, per la quale le infezioni del modernismo che passano nei diversi Istituti sono ben più numerose e virulente degli anticorpi che essi immettono nell’attuale compagine ecclesiale.
A queste considerazioni va aggiunto che, improvvisamente, subito dopo il famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, nel quale Benedetto XVI lancia la ciambella di salvataggio delle ermeneutiche contrapposte, quella giusta “del rinnovamento nella continuità” e quella sbagliata “della discontinuità e della rottura”, ecco che si aprono gli occhi di tutti, ecco che si capisce dove stava il trucco. Nell’ermeneutica… nell’ermeneutica che ancora oggi nessuno dice chi l’abbia sviluppata e fatta affermare, sia la giusta sia la sbagliata. Un altro mistero della Chiesa moderna!
Ed ecco che sorgono cardinali e vescovi, finora accuratamente defilati, a difendere questa spiegazione, come se loro per 40 anni fossero stati in un forzoso ritiro sabbatico. Ecco sorgere centinaia di teologi professionisti e avventizi che ci spiegano come questa teoria sia quanto di più intelligente è possibile, e che è proprio questo che loro hanno fatto in 40 anni, tramite i diversi pronunciamenti del Magistero, dai quali non è mai sortito niente di correttivo solo per colpa di quegli sconosciuti ermenueti della rottura che, guarda caso, hanno avuto la meglio, forse per il sostegno dato loro da quei “media” di cui parla Benedetto XVI nello stesso discorso.
Vuoi vedere che la terribile crisi in cui si dibatte la Chiesa da 45 anni è tutta colpa dei giornali?
Ed ecco che sorgono migliaia di chierici e laici che si dichiarano pronti ad innalzare la bandiera della difesa della Tradizione della Chiesa, imbracciando le armi del Concilio ingrassate e lustrate con la miracolosa ermeneutica della riforma nella continuità. Migliaia di cattolici che, dopo aver praticato per 45 anni gli insegnamenti dei loro Vescovi, scoprono che basta rileggerli secondo l’ermeneutica della continuità per farli coincidere con tutta la Tradizione, quasi che in questi 45 anni non fosse successo niente di strano, a parte un certo rimediabile qui pro quo.
Fino allo scoppio della bomba della liberalizzazione dell’uso del Messale del 1962. Un’illuminazione! Il Messale tradizionale non è mai stato abrogato! Ecco risolti tutti i problemi!
E via alla corsa alla Messa tradizionale. Chi per anni aveva snobbato e perfino denigrato gli archeologizzanti cultori del “vecchio”, ecco che si scopre difensore del “patrimonio da conservare”, in fedele ossequio alla “volontà del Santo Padre”.
La solita troppo umana metamorfosi dell’allineamento col comandante di turno.
Fedeli al Papa… sempre… sia quando emargina e praticamente proibisce la liturgia bimillenaria della Chiesa, sia quando al grido di “contrordine… compagni!”, ne rilancia e difende l’uso universale.
L’ha detto il Papa!
Meno male che le vie del Signore sono imperscrutabili e che Egli vede e provvede… nonostante le debolezze degli uomini… fino a trarre sempre il bene dal male. Meno male!
Perché è solo per questo che la liberalizzazione dell’uso del Messale tradizionale ha dato tanti buoni frutti nell’intero mondo cattolico.
Ora, quando si dice che la Chiesa trarrebbe un grande beneficio dalla regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X, oltre alla sottovalutazione degli elementi che abbiamo qui abbozzato, sembra si dimentichi lo stato oggettivo in cui si trova oggi la Chiesa, nelle persone di migliaia di vescovi, teologi e laici “competenti” che contano.
La Fraternità continua a dichiarare, per bocca de
l suo Superiore Generale, Mons. Fellay, e per bocca di altri chierici e laici che seppure non fanno testo, fanno comunque contesto, cosa che tanti trascurano negligentemente, … continua a dichiarare che la crisi non è finita, che anzi per certi aspetti non accenna neanche a finire. Che solo il Buon Dio potrà sanare le piaghe sanguinanti del Suo Corpo Mistico.
Esagera? È costretta dai suoi pregiudizi?
Forse… ma!
Da più di un anno si sono levate voci nel mondo cattolico che, partendo dal richiamato discorso di Benedetto XVI, hanno provato a “fare un discorso” serio sulla necessità di una revisione di tanti insegnamenti e di tante pastorali moderne. Oltre ai plausi e alle condivisioni che sono giunte da più parti, com’era naturale che fosse, e oltre alle grida di “scandalo” che subito si sono alzate dalle bocche contorte degli ancora tanti irriducibili “modernisti”, cos’è accaduto nel resto della compagine cattolica?
Con calma, ma con forza sempre più crescente, esponenti diversi del clero e dei laici “che contano”, hanno eretto una barricata a difesa di tutto ciò che i primi hanno chiamato in questione. Sono state scritte centinaia di pagine, utilizzate tutte le testate autorevoli e, cosa che oggi conta non poco, si sono mobilitati diecine di siti internet, alcuni sorti per la bisogna, per spiegare, dati liturgici e teologici alla mano, ovviamente!, che tali voci sono teologicamente e storicamente in errore, sia per la pochezza delle argomentazioni, sia per la relativa informazione degli autori, sia pure… cosa decisamente inaudita … per l’indebita ingerenza degli stessi in campi non di loro competenza. E tutta questa gente si è ritrovata d’accordo, e non a caso, su una sorta di ritornello che ripete che né il Concilio né il Papa possono sbagliare, perché sono assistiti dallo Spirito Santo. Quindi, se il Papa dice che l’unico errore sta nell’ermeneutica, dovrebbe essere evidente per ogni cattolico che è lo Spirito Santo che lo dice. Ogni altra considerazione, per quanto illustre, sarebbe priva del necessario appoggio soprannaturale e quindi senza valore, salvo quello della mera opinione personale. Per la semplice proprietà transitiva, è altrettanto evidente che solo coloro che difendono tutto in forza dell’ermeneutica della continuità sono nel giusto, perché beneficerebbero indirettamente della stessa assistenza di cui beneficia il Papa.
Il fuoco di sbarramento contro Mons. Gherardini e, ultimamente, contro il Prof. de Mattei, è solo l’esempio aggiornato di una tecnica della persuasione occulta e del ricatto disciplinare e teologico che da 45 anni viene usata nei confronti dei fedeli cattolici.
Questa tecnica poi, affinata dalla particolare competenza e dalla specifica preparazione, è la stessa usata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede in occasione dei colloqui con la Fraternità. Cortesia, educazione, disponibilità, carità, … ma una cosa è indiscutibile: nessun errore nel Concilio, né nelle sue applicazioni, dalla liturgia moderna all’ecumenismo, dalla collegialità alla libertà religiosa, dalla dignità dell’uomo all’imperativo per l’unità della Chiesa. Tutte le deviazioni prodottesi sono figlie dell’ermeneutica della rottura, già in parte corrette dall’ultimo magistero dei Papi e dal 2005 ancor meglio dal magistero di Benedetto XVI. Non rendersi conto di questa evidenza elementare significa solo avere “una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione”, contraddittoria perché “si oppone al Magistero universale della Chiesa, di cui è detentore il Vescovo di Roma e il Corpo dei Vescovi.”
Dopo più di vent’anni siamo ancora fermi allo stesso punto, con la sola sottile aggiunta dell’ermeneutica.
La crisi continua ancora.
Delineato questo mosaico, sorgono alcune domande: come potrebbe operare in questo contesto la Fraternità dopo avere accettato una legittima posizione canonica? Con quale efficacia? Su cosa e su chi potrebbe contare la Fraternità per condurre la necessaria battaglia di verità? Quanti fedeli cattolici arriverebbero a darle man forte? Quanti chierici si disporrebbero per affiancarne l’apostolato e la predicazione?
Abbiamo in mente, non solo i tanti cattolici che oggi sembrano ingrossare quell’area che potremmo chiamare “conservatrice”, ma anche quei cattolici che fino a ieri guardavano con una certa simpatia alla Fraternità e che da tre anni la guardano con sufficienza, poiché è evidente che per costoro la precondizione perché possano appoggiare domani la tanto auspicata battaglia “interna” della Fraternità è che questa condivida in toto i loro osanna per il Papa e per l’ermeneutica della riforma nella continuità.
In altre parole, tutti auspicano oggi che la Fraternità accetti la regolarizzazione canonica perché dovrebbe essere la Fraternità a togliere le castagne che loro hanno lasciato sul fuoco da 45 anni, e questo la Fraternità lo dovrebbe fare: o da sola oppure col concorso di tante buone volontà che già da oggi la invitano a sposare le loro posizioni e i loro convincimenti. Perché ciò che conta non sono le motivazioni della quarantennale battaglia per la Tradizione, che è poi quella che ha permesso a tanti perfino di esistere, ma le aggiornate esigenze della tanto auspicata “pace liturgica”, le evidenti urgenze della rilettura della Tradizione alla luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità, le impellenti istanze della più grande unità della Chiesa che finalmente comprenda tutti i credenti in Cristo: i cattolici tradizionali, i cattolici modernisti, i cattolici così così, i movimenti ecclesiali, i laici devoti, i cristiani separati e tutti coloro che vorranno condividere questo splendido tempo di riconciliazione e d’amore sotto la guida illuminata del Papa.
Di Belvecchio
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