lunedì 20 maggio 2013

A proposito dell'articolo di Marco Bongi

Pubblico e sottoscrivo da UNAVOX.

A proposito dell'articolo di Marco Bongi

Una conferenza di mons. Richard Williamson


di Belvecchio



Letto e pubblicato l'articolo di Marco Bongi richiamato nel titolo, ci è sembrato opportuno e doveroso scrivere alcune precisazioni. Sia perché siamo certi saranno prese in consideraziome da Marco Bongi stesso, sia e soprattutto perché l'oggettiva realtà reclama di essere richiamata, così che si possa guardare oltre le nebbie del soggettivismo.


Esiste un problema in seno all’ambito tradizionale in generale, di natura prevalentemente psicologica: è il problema meramente umano, quindi in certo modo comprensibile, ma non per questo giustificabile, di trovare sempre un nemico da indicare come causa principale dei mali che affliggono la moderna tenuta religiosa cattolica.
Restringendo la visuale all’ambito tradizionale che ruota intorno alla Fraternità San Pio X, sembra che qui il nemico di turno sia uno dei quattro vescovi, Mons. Richard Williamson, individuato come la causa principale della crisi esplosa nel 2012 in seno alla Fraternità.

Non v’è dubbio che a questa crisi abbiano concorso diversi fattori, alcuni legati anche alla valenza personale di questo o di quel responsabile della Fraternità, ma, piuttosto che soffermarsi a riflettere su tutti i fattori, e per primo su quelli generali, che sono i più importanti, certi fedeli preferiscono individuare delle responsabilità specifiche e personali, che permettano loro di evitare il gravoso impegno della riflessione e della valutazione complessiva del problema.

Il canovaccio è sempre lo stesso: si sostiene che il “colpevole” sia uso avanzare delle “insinuazioni” senza il sostegno di argomentazioni circostanziate. Certo una leggerezza, che scantonerebbe inevitabilmente nella colpa!
Ma come si argomenta per affermarlo? Ci si richiama non al ragionamento complessivo dell’incriminato, ma a questa o a quella affermazione, colta proprio sull’onda dell’emotività auto appagante.

Per esempio, si citano certi passi dei “Commenti Eleison” di Mons. Williamson per evitare di citare, ancora per esempio, la nota lettera dei tre vescovi al Superiore generale, del 7 aprile 2012, lettera che è un compendio serio della problematica sorta.
Ovviamente la citazione della lettera ridimensionerebbe di parecchio la supposta esclusiva responsabilità di Mons. Williamson, che è solo uno dei firmatari, ma questo non sarebbe funzionale allo scopo di individuare “un” colpevole. Tra l’altro, citando quella lettera, si sarebbe obbligati a citare poi la risposta del Superiore generale, ampliando così il ventaglio delle responsabilità, cosa che anch’essa non sarebbe funzionale allo scopo suddetto.

Lungo questa linea di condotta, più epidermica che meditata, è inevitabile che si incappi in imprecisioni e fraintendimenti.
Per esempio: la citazione della parafrasi ai Galati (CE 257 - I Galati di oggi), serve per parlare, soggettivamente, di “velenose insinuazioni”, dimenticando che la lettera settimanale in oggetto è la n° 257 e che quindi presuppone le precedenti, al pari della lettera dei vescovi citata prima, tale che si finirebbe col constatare che non si insinua, ma si afferma… cose queste che sicuramente sono molto diverse.

Lo stesso dicasi per la citazione del CE 282 – Una spiegazione?, da cui si evincerebbe una sorta di pentimento o di incongruenza di Mons. Williamson.
In realtà, molto semplicemente, in quel Commento si dice invece:
In conclusione, se la crisi della FSSPX di questa primavera ed estate mi ha fatto dubitare della competenza e dell’onestà del SG [Superiore generale] e del suo QG [Quartiere generale], temo che dopo questa spiegazione delle cinque citazioni, posso solo rimanere perplesso. Che Dio sia con loro, perché hanno una responsabilità spaventosa.

Che in italiano significa che la spiegazione non spiega nulla e i dubbi sulla competenza e sull’onestà rimangono.
Nessun ripensamento, quindi.

Un argomento a sostegno della colpevolezza di Mons. Williamson, sarebbe il fatto che accuserebbe di “liberali” i sacerdoti della Fraternità che hanno promosso i noti incontri del GREC e vi hanno partecipato, senza “qualche straccio di prova” e solo sulla base delle “pagine di un libro scritto da un ex-ambasciatore” [nota nostra. si veda anche].

Il solito diavolo che dimentica di mettere i coperchi alle pentole.
Infatti, il libro è un resoconto di quei famosi colloqui ideati dal defunto ambasciatore e scritto non da lui, ma da uno dei promotori e dei partecipanti, cioè da chi è stato parte in causa insieme ai sacerdoti indicati prima.
Oltre al resoconto, quale altra prova si richiederebbe, forse un certificato di frequenza rilasciato da qualche circolo liberale, diverso da questo?

Ma perché Mons. Williamson avanzerebbe accuse gratuite?
Perché, pur senza prove, soggiacerebbe al suo “ancestrale pessimismo”; una sorta di fissazione maniacale che gli farebbe vedere nemici dove invece ci sarebbero solo amici.
Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte al solito problema del bue che dice cornuto all’asino.

Sembrerebbe, infatti, che lo scopo dei colloqui del GREC sarebbe stato quello di convertire i liberali alla Tradizione, cosa che invece Mons. Williamson non avrebbe capito, nonostante le prove contrarie.
Quali prove? Per esempio che nessuno dei partecipanti al GREC abbia deciso di avvicinarsi alla Fraternità, restando fermo nel suo convincimento che avrebbe dovuto essere la Fraternità ad avvicinarsi a loro e a Roma. Cosa peraltro regolarmente accaduta a certi sacerdoti della Fraternità, come si evince chiaramente dalla lettera del Superiore generale ai tre vescovi, dove è detto, testualmente:
Quanto avrebbe amato poter contare su di voi, sui vostri consigli per sostenere questo passo così delicato della nostra storia.”
Il “passo così delicato” da sostenere era l’ormai deciso accordo con Roma, senza alcun avvicinamento di Roma alla Tradizione, come dimostrato dall’epilogo della vicenda: lo stesso Superiore generale che conferma che oggi le cose stanno come nel 1975, cioè nessuno a Roma si è avvicinato alla Tradizione, nessun liberale si è convertito alla Tradizione, e questo nonostante i colloqui del GREC e i colloqui con la Congregazione per la Dottrina della Fede; a riprova che i colloqui di tal fatta servono solo ai liberali per cercare di portate la Fraternità sulle loro posizioni, guarda caso, esattamente come sostiene Mons. Williamson col suo “ancestrale pessimismo”, rivelatosi, di fatto, uno spiccato senso della realtà oggettiva.

Ma si sostiene anche che tutti gli incontri effettuati “discretamente, riservatamente e quasi in segreto”, tra “sacerdoti, vescovi, religiosi e fedeli” e i membri della Fraternità, dimostrerebbero che l’approccio è produttivo e vantaggioso per la Fraternità e la Tradizione, perché i fatti sarebbero lì a dimostrare che il risultato è l’avvicinamento di questi “altri” alla Fraternità. E si fanno degli esempii, come quello di Don Massimo Sbicego, della diocesi di Vicenza.
Quindi “ben vengano gli incontri discreti, riservati e "quasi segreti" se lo scopo è quello di far comprendere, con amore e Carità, le autentiche necessità della Chiesa di oggi!

Tutto vero, tranne alcuni particolari che capovolgono il ragionamento e impongono la constatazione che le iniziative pericolose e inopportune come quelle del GREC devono essere condannate.
Innanzi tutto i colloqui del GREC miravano alla conciliazione tra le posizioni della Fraternità e quelle della nuova Chiesa sorta col Vaticano II, e non certo all’illuminazione dei chierici di quest’ultima, che peraltro comprendevano anche quelli che erano già passati dalla Tradizione all’accordo con la Roma conciliare.
Secondariamente, questi colloqui non si svolgevano nei priorati della Fraternità, né a Menzingen o a Ecône, luoghi volutamente evitati da tanti chierici partecipanti al GREC, anche perché li avevano frequentati in passato ed erano giunti alla conclusione che bisognava abbandonarli.
In terzo luogo, per usare l’esempio di Don Sbicego, fu quest’ultimo che si trasferì dalla diocesi di Vicenza al Priorato di Rimini, e non i sacerdoti di Rimini che si accordarono con la diocesi di Vicenza, come si studiava di fare col GREC.

D’altronde, sarebbe davvero grottesco pensare che qualcuno sia davvero così ottuso da ritenere che l’apostolato non sia uno degli scopi della Fraternità fin dal suo nascere. Ma è certo grottesco convincersi che gli incontri del GREC siano stati opera di apostolato tradizionale, nonostante la dichiarata intenzione di trovare un punto di compromesso tra la Tradizione e la nuova Chiesa conciliare.
Evidentemente un certo ottimismo ama convincersi che la ricerca del compromesso dottrinale sia il modo migliore per fare apostolato, a riprova che più che la realtà oggettiva, certuni tengono sempre presente la realtà soggettiva, virtuale, che alimenta l’auto-appagamento.

Ne è prova l’affermazione che “la motivazione che portò i Papi del XIX secolo a scrivere così tante encicliche contro il liberalismo” sarebbe stata “la speranza di convertire e convincere attraverso l'argomentazione filosofica, teologica e magisteriale”.

Ora, chi avesse mai letto quelle encicliche si sarebbe reso conto che “oggettivamente” esse parlano a gran voce di denuncia e di rifiuto, e non inducono affatto una visione “soggettiva” che scambi questa denuncia per una profferta dialogica.
Sarebbe come se l’ammonimento scritturale: “Convertitevi e credete al Vangelo”, fosse considerata un’argomentazione filosofica o teologica o magisteriale volta a “convincere”.

Certo che poi si fa fatica a comprendere la tenuta di Mons. Williamson. Visto che egli si pronuncia semplicemente imitando la Scrittura, ecco che viene giudicato come privo di capacità e di volontà dialogica.
E la fatica è tale che si cade nella gaffe di paragonare sottilmente l’opera di Pio IX, ritenuto liberale dai liberali del tempo e da questi stessi successivamente disprezzato, con l’operato dei papi del post-Concilio, come se ce ne fosse stato anche solo uno ad aver scritto un’enciclica anche lontanamente paragonabile con quelle di allora!
In questo caso sì che Mons. Williamson sbaglierebbe a considerare liberali irriducibili i papi della Chiesa conciliare.

E questa sorta di ottimismo ad ogni costo, è inevitabile che porti a giudicare Mons. Williamson come un catastrofista o un millenarista, pericoloso; soprattutto ove si pensi che all’uomo della strada non piace che gli si ricordi che il castigo di Dio è sempre incombente, egli preferisce pensare che all’ultimo riuscirà a cavarsela per il rotto della cuffia.

Nel caso in specie, molti sono portati a considerare che in fondo poi le cose si aggiustano, visto che “normalmente, la via di Dio è quella ordinaria delegata all'azione umana degli uomini di Chiesa, e in special modo del Sommo Pontefice”, così da dimostrare di essere convinti che negli ultimi tre secoli – per limitarci alle piaghe fresche - la storia del mondo, e quindi della Chiesa, sia stata un alternarsi di cadute e di “ripresa della Verità”, grazie agli uomini di Chiesa.

Qui si va oltre l’ottimismo e si mette a nudo l’inconscia soggiacenza alle suggestioni del demonio, che suggeriscono una visione del mondo che sottovaluta il moto accelerato di caduta che regge il destino del secolo.
È un vecchio trucco sulfureo: bada uomo, non credere alla favola del pianto e dello stridore di denti annannita dal Vangelo, fida piuttosto nell’azione umana degli uomini di Chiesa!

È così che ci ritroviamo oggi, nel mondo, con l’esaltazione del vizio e, nella Chiesa, con l’esaltazione delle false religioni, anche a voler far finta che pur col modernismo e con i diritti dell’uomo, il Vaticano II e i papi abbiano svolto un prezioso lavoro di “ripresa della Verità”.

Ora, che il demonio sussurri è cosa risaputa, e che Dio permette, ma che dei cattolici tradizionali pensino che si tratti di uno zefiro rigenerante è cosa triste, che fa capire fino a che punto sia scaduta la tenuta della fede e la lucidità della ragione.

E l’annebbiamento è tale da far dire: “In ciò davvero può ravvisarsi, come affermato da mons Fellay nella lettera riservata ai tre Vescovi della FSSPX, una carenza di soprannaturalità nella concezione ecclesiologica e una scarsa fiducia nella forza intrinseca della Verità quando si confronta apertamente con l'errore.”

Questa frase è singolarmente rivelatrice dello scambio della realtà oggettiva con la realtà immaginaria e merita che ci si soffermi un po’.

Nella famosa lettera ai tre vescovi, il Superiore generale dice:
«Innanzi tutto la lettera indica esattamente la gravità della crisi che scuote la Chiesa e analizza con precisione la natura degli errori complessivi che abbondano. Tuttavia, la descrizione è macchiata da due difetti relativi alla realtà della Chiesa; manca del soprannaturale e nel contempo di realismo.
Essa manca del soprannaturale. Nel leggervi, ci si chiede seriamente se voi credete ancora che questa Chiesa visibile la cui sede è a Roma sia proprio la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, una Chiesa certo orribilmente sfigurata a planta pedis usque ad verticem capitis, ma una Chiesa che quanto meno e ancora ha per capo Nostro Signore Gesù Cristo. Si ha l’impressione che voi siate talmente scandalizzati da non accettare più che questo possa essere ancora vero. Per voi Benedetto XVI è ancora il papa legittimo? Se lo è, Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca? Se il papa esprime una volontà legittima nei nostri confronti, che è buona, che non comporta un ordine contrario ai comandamenti di Dio, si ha il diritto di trascurare, di respingere con un gesto della mano questa volontà? E se no, su quale principio vi basate per agire così? Non credete che se Nostro Signore ci comanda, Egli ci darà anche i mezzi per continuare la nostra opera? Ora, il papa ci ha fatto sapere che la preoccupazione di regolare la nostra questione per il bene della Chiesa era al cuore stesso del suo pontificato, e anche che sapeva bene che sarebbe stato più facile per lui e per noi lasciare la situazione nello stato delle cose. Dunque è una volontà ferma e giusta che egli esprime.
[…] Ampiezza: da una parte si addossano alle attuali autorità romane tutti gli errori e tutti i mali che si trovano nella Chiesa, tralasciando il fatto che esse cercano almeno in parte di liberarsi dai più gravi di essi (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali). Dall’altra si pretende che TUTTI siano ancorati a questa pertinacia («tutti modernisti», «tutti marci»). Ora, questo è chiaramente falso. Una gran maggioranza è sempre implicata nel movimento, ma non tutti. Al punto che sulla questione cruciale tra tutte, quella della possibilità di sopravvivere nelle condizioni di un riconoscimento della Fraternità da parte di Roma, noi non arriviamo alla vostra stessa conclusione.” [neretto nostro]

La citazione è lunga, e ce ne scusiamo, ma è importante cercare di capire come possa scambiarsi la soprannaturalità con l’ottimismo e il realismo col desiderio personale.
Questa lettera fu scritta il 14 aprile 2012, e lo stesso Superiore generale, l’11 novembre successivo, dichiarava pubblicamente, in un’omelia:
Ecco, miei cari fratelli, la situazione. Ed ecco perché è evidente che dal mese di giugno – l’abbiamo annunciato alle ordinazioni – le cose sono bloccate. È un ritorno al punto di partenza. Noi ci troviamo esattamente allo stesso punto di Mons. Lefebvre negli anni 1975, 1974. E dunque la nostra battaglia continua. Noi non abbandoniamo l’idea di riguadagnare un giorno la Chiesa, di riconquistare la Chiesa alla Tradizione. La Tradizione è il suo tesoro, il tesoro della Chiesa. Ebbene, noi continuiamo, in attesa del giorno felice… che verrà. Quando? Non ne sappiamo niente. Lo vedremo. Esso sta nel segreto del Buon Dio. Verrà questo giorno in cui la zizzania sarà estirpata, questo male che fa soffrire la Chiesa. Quella che noi viviamo è probabilmente la crisi più spaventosa che la Chiesa abbia mai sofferto. Dove si vedono i vescovi, i cardinali, che non conducono più le anime al Cielo, ma che benedicono le vie dell’Inferno. Che non avvertono più le anime dei pericoli che esse corrono qui sulla terra. Che non le richiamano più allo scopo della loro esistenza… lo scopo, che è il Buon Dio., che è l’andare in Cielo. E che non vi sono trentasei cammini per andarci, ma solo il cammino della penitenza, il cammino della rinuncia. Non tutto è permesso. Vi sono i Comandamenti del Buon Dio. E se non li si vuole rispettare, ci si prepara per l’Inferno.” [neretto nostro]

Ancora una lunga citazione, che però permette di constatare che in questa omelia si ripete, dandolo per realtà ultimamente accertata, quello che avevano descritto i tre vescovi e che ad aprile era stato contestato, confessando così implicitamente che non erano i vescovi a sbagliare e a mancare di soprannaturale e di realismo, ma era proprio il Superiore generale ad essere erroneamente convinto che tutto andasse verso il bene e che si potesse corrispondere alla “volontà ferma e giusta” espressa dal Papa: ratificando un accordo.

Non è quindi Mons. Williamson, con gli altri vescovi, a disperare del “ritorno della Roma conciliare alla Roma eterna”, ma è l’ottimismo soggettivo del Superiore generale, e di altri chierici e fedeli della Fraternità, ad impedire che essi possano cogliere la realtà oggettiva in cui si trova la compagine ecclesiale cattolica moderna.

Non c’era bisogno di alcun ricorso al soprannaturale per capire, ad aprile, che il Papa voleva condurre la Tradizione al modernismo e non esprimeva “una volontà ferma e giusta”, ma una volontà inevitabilmente liberale: fare accettare ai fedeli tradizionali la realtà antitradizionale del Concilio.
Fu invece per l’intervento provvidenziale della Madonna, come dice Mons. Tissier de Mallerais, che a luglio il Papa confermò a Mons. Fellay che la Fraternità doveva accettare il Concilio, la nuova Messa e il Magistero postconciliare, ridimensionando mesi di interventi di Mons. Fellay con i quali egli assicurava che il Papa voleva la Fraternità nella Chiesa, senza gravose condizioni, secondo “una volontà ferma e giusta”, per aiutare la Chiesa a tornare alla Tradizione.

Se si fosse dato ascolto a Mons. Williamson e agli altri vescovi, si sarebbe evitata la crisi nella Fraternità e la cacciata di tanti sacerdoti, compreso Mons. Williamson; si sarebbe evitato di sconfessare, sette mesi dopo, le improvvide rosee aspettative di aprile; si sarebbe evitato di doversi giustificare affermando di essere stato ingannato; si sarebbe evitato di diffondere la confusione tra i fedeli e si sarebbe evitato di alimentare la caccia al reprobo per camuffare l’annebbiamento della ragione che aveva invaso la mente di certi responsabili della Fraternità.

Così che, a posteriori, vista la fine che ha fatto l’ottimismo del Superiore generale, si comprende che Mons. Williamson non soffre di “ancestrale pessimismo”, ma di sano realismo e di illuminata lungimiranza.

Quella lungimiranza che lo porta a ricordare a tutti scomode prospettive, come quella della stabilizzazione del “piccolo resto”, concetto non inventato da lui, ma determinato dall’oggettiva condizione in cui si trova sempre più la compagine cattolica nel seno di questo mondo che si muove con moto accelerato verso la resa dei conti definitiva. Cosa che non attiene al millenarismo, ma al ritorno ineluttabile del Figlio dell’Uomo, quando saranno contati i capri e le pecore e sarà dato ad ognuno secondo i meriti e i demeriti di ciascuno, al di là delle buone intenzioni, degli ottimismi e delle speranze umane e terrene.

Ed è compito di questo “piccolo resto” condurre l’apostolato fino alla fine, con la testimonianza e con il richiamo all’essenziale, che è l’unico modo per aiutare il prossimo a “convertirsi e a credere al Vangelo”.
Non è con la sola predicazione della Verità che si aiuta il prossimo, ma, in questo mondo sempre più dimentico di Dio, è anche con la necessaria condanna e col sacrosanto rifiuto dell’errore, ovunque esso si annidi, massimamente nel seno stesso della Chiesa e ai suoi vertici.

È questa la vera predicazione e la vera messa a frutto dei talenti assegnatici dal Signore: ricordare al prossimo che perseverando nell’errore si affretta il castigo di Dio. Tutto il resto è accademia e dialettica moderna, dove continua ad allignare la mala erba della “medicina della misericordia” che rifugge dalla condanna dell’errore; la mala erba della Verità che si affermerebbe da sola “quando si confronta apertamente con l’errore”, come se la Verità potesse minimamente confrontarsi con la sua negazione, con l’errore appunto, senza che a questo si finisca col riconoscere una positiva realtà che non ha.

L’errore è una negazione, e qualunque studente medio sa che l’accostamento tra un numero di segno negativo ed uno di segno positivo, dà come risultato un numero negativo, come accade esattamente nel caso del “confronto” o “dialogo” che dir si voglia, mentre l’unica volta che scaturisce un numero di segno positivo è quanto non c’è più confronto, ma somma algebrica: +100, che è la verità, accostato a -10, che è l’errore, dà come risultato + 90, confermando due leggi innegabili dell’esistenza.

La prima: che la Verità non si “confronta” con l’errore, ma lo distrugge, lo annienta a priori.

La seconda: che nel corso dell’esistenza, la lotta all’errore indebolisce umanamente la verità, riducendone sempre più l’apparenza quantitativa, quasi a dimostrazione che la diminuzione della quantità – il piccolo resto - è il correlativo del mantenimento della qualità – sempre del piccolo resto –; così che di fronte al perire quantitativo del secolo, si mantenga la necessaria qualità, seppure umanamente ridotta al minimo, come sta scritto: anche per un solo giusto sarà ritardato il castigo.

1 commento:

  1. In realtà l'atteggiamento di mons. Fellay non riesce davvero a scandalizzarmi, anzi, considerato in astratto, sarei portato a riconoscegli una certa nota di coerenza se mi riuscisse anche di simpatizzare con lui. In realtà la situazione odierna della FSSPX credo sia ancora sostanzialmente quella di sempre, senza però quell'elemento deterrente capace di mantenerla in equilibrio anche sul più pericoloso dei crinali: il suo fondatore. Difatti nessuno all'interno della Frater., da quanto mi risulta, si sogna di mettere in dubbio, anche solo in via ipotetica, che il card. Ratzinger potesse non godere di un'autorità divinamente assistita, cosa che avrebbe dovuto renderlo almeno possibilmente inaffidabile in decisioni tanto delicate - eventualità che invece nei confronti dei "papi" conciliari il buon mons. Lefebvre (morto "scomunicato" secondo la vulgata corrente), in almeno una occasione documentata, manteneva ancora come una questione aperta e di una certa consistenza: «Il Papa è ancora tale quand’anche eretico? Non lo so, io non esprimo giudizio definitivo! Ma provate a porre la domanda a voi stessi. Io penso che qualsiasi uomo di buon senso dovrebbe porsi la domanda. Io non lo so. Dunque, ora è urgente parlarne? (…) Possiamo parlarne intanto tra di noi, in privato, nei nostri uffici, nelle nostre conversazioni private tra seminaristi, tra sacerdoti, e così… Dovremmo parlarne ai fedeli? Tanti dicono: “No, non parliamone ai fedeli. Potrebbero restare scandalizzati”. Bene. Io ho detto ai sacerdoti di Parigi, quando li ho incontrati: “Penso che, pian piano, dobbiamo preparare i fedeli…”. Non sto dicendo che tutto d’un tratto l’argomento vada gettato in pasto ai fedeli… per non spaventarli. Ma personalmente continuo a pensare che si tratti precisamente di una questione di fede. I fedeli non devono perdere la fede. Occorre mantenere la fede dei fedeli, proteggerla. Altrimenti perderanno la fede… anche i nostri tradizionalisti» (Conferenza spirituale di Mons. Lefebvre, 15 aprile 1986, “La difesa della fede”)

    Oggi, rimasti e fuoriusciti, stanno invece tutti lì ad assicurare i fedeli che su questo non si discute, e guai a parlarne loro francamente. In sincerità in ciò non vedo molta differenza tra mons. Fellay e mons. Williamson (sebbene ne veda, anche se problematicamente, con mons. Lefebvre), come non ne vedo, mutatis mutandis, tra una destra (sebbene delegittimata) ed una sinistra parlamentare: sembrerebbe che oramai li divida una contrapposizione insanabile, ma a ben vedere si ha piuttosto l'impressione che si trovino solo agli opposti partitici estremi di un medesimo schieramento, identico nella sostanza, e che rimanga loro solo di disputarsi (insieme, presumo, alla questioni personali) una più o meno pretesa coerenza con origini inamovibili - che però il fondatore ritenne sucettibili di costante maturazione.

    Entrambi, a mio modo di vedere, scontando il ruolo degli epigoni sono destinati a scontare il vuoto incolmabile lasciato in seno alla FSSPX da mons. Lefebvre, nell'impossibilità di risolvere connaturali idiosincrasie dottrinali interne (direi dei veri e propri vizi di forma, cioè tendenti invariabilmente ad un gallicanesimo più o meno marcato) che solo il fondatore avrebbe potuto risolvere, come credo avrebbe sicuramente fatto se solo fosse vissuto un po' di più (e come a suo tempo già provvide progressivamente a fare, precisando p. es., con il proprio, l'atteggiamento - che non fu sempre il medesimo - che i sacerdoti della Fraternità dovevano prendere in merito al rito di Paolo VI). Sia quel che ne sia della FSSPX, a noi cattolici romani, al di là di accentuazioni che si direbbero essere divenute oramai davvero inessenziali di fronte problemi troppo grandi per chiunque, sembra non resti che pregare e fare penitenza implorando dalla Provvidenza che non ci vengano a mancare mai i canali della grazia santificante - senza possibilmente buttare alle ortiche il senso ecclesiale, giacché la Chiesa, anche in sede vacante, rimane indefettibile fino alla fine dei tempi.

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