domenica 17 febbraio 2013

MAGISTRALE

Pubblico questo articolo preso da Acta apostaticae sedis, perchè, seppur lungo è un pò difficile e di alto livello, rispecchia ciò che sostengo sulla vicenda del Papa e rappresenta il sano realismo del cattolico e della sua dottrina ed il vero amore per la Chiesa e per il Papa.
 
PERCHÉ PAPA RATZINGER-BENEDETTO XVI

DOVREBBE RITIRARE LE SUE DIMISSIONI.

di Enrico Maria Radaelli


L’11 febbraio 2013, festa della Santa Vergine di Lourdes, il mondo ha ascoltato impietrito il Comunicato con cui è stato annunciato che Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha dato le dimissioni, con effetto il giorno 28 dello stesso mese, dal suo altissimo Trono di Vicario di Cristo, di Sommo Romano Pontefice, di Vescovo di Roma e del mondo.

Le motivazioni adombrerebbero un sentimento di riconoscimento razionale e ponderato di insufficienza della persona, ormai molto avanti negli anni, impossibilitata ad affrontare i doveri cui è chiamato un Pontefice “del giorno d’oggi”, ossia davanti al carico immenso, sempre più oneroso, oramai davvero soverchiante, dell’altissimo ufficio.




Quel che qui si vuole esprimere potrebbe contrastare in qualche misura o anche totalmente il punto di vista di persone religiose di diversa sensibilità da quella di chi scrive, ma mi si permetta di esporre il mio convincimento prendendolo quale vuol essere e non come forse nella foga del discorso potrebbe apparire: una del tutto possibile congettura, un’ipotesi di lavoro; certo: ragionevolmente convinta, adeguatamente argomentata – si crede – logicamente e scritturalmente, che non vuole avere alcuno scatto di perentorietà se non quello di sollecitare il tempo a fermarsi almeno per qualche attimo, così da avere almeno per un giorno il sole fermo, e così non permettere ciò che, nella prospettiva qui da me aperta, l’irreparabile appunto, davvero avvenga.



In un lunedì di ordinario concistoro, divenuto improvvisamente fatidico, la cattolicità resta frastornata, inebetita da un annuncio inatteso, da una sonorità di tuono che quasi la

pietrifica: “Il Papa si dimette”. La notizia avvolge il mondo in un baleno, e subito lo rinserra come in un’unica pietra.



Il Papa si dimette. Si dimette?! Come: “Si dimette”? E la madre di famiglia? e la luna? è caduta anche la luna? Perché non si dimette la madre di famiglia? perché non cade la luna?

Come fa il Papa a ‘dimettersi’?

Infatti la carica ricoperta da un Papa è carica dove il sacrificio è natura sua indistruttibile e assoluta conditio a priori a ogni altra considerazione: « “Simone di Giovanni, mi ami tu più

di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose GESÙ: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti

dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. » (Gv 21, 15-8).

La croce è lo status di ogni cristiano: Cristo, crocevia tra Dio e gli uomini, Imago dell’Immagine di Dio per rappresentare dai Cieli Dio agli uomini e dalla terra gli uomini a Dio, è il modello esemplare a ogni suo seguace. Non c’è seguace di Cristo, non c’è “cristiano” cui la croce possa essere alleggerita, né tantomeno tolta: a san Paolo, esemplarmente, che ben tre volte supplicò il Signore di sollevarlo dai tormenti, Cristo rispose: « Ti basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella [tua] debolezza » (2 Cor 12, 9). E se si torna al Monte degli Ulivi, si sentirà ancora l’eco delle decise parole di obbedienza e sottomissione del divino Agonizzante: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà » (Mt 26, 42).



Conseguenze: ribellarsi al proprio status, rigettare una grazia ricevuta, parrebbe per un cristiano, da san Paolo in giù – per non dire da Cristo in giù –, colpa (grave) contro la virtù

della speranza, contro la grazia e contro il valore soprannaturale dell’accettazione della propria condizione umana, tanto più grave se la condizione ricopre ruoli in sacris, come

è la condizione, di tutte la più eminente, di Papa.



Non mi avvalgo delle centinaia di Pontefici che accettarono fino allo stremo il durissimo incarico: a decine li troviamo, nei secoli più terrificanti e bui della storia, eletti al Sacro Soglio magari già vecchi di anni oltre ogni dire – e spesso, maliziosamente, eletti proprio in quanto vecchi e acciaccati oltre ogni dire –, e Papi che ciò accettarono spesso ben sapendo della malizia con cui si approfittava della loro canizie.

Chi non ha letto nei libri di storia dei Papi che gli eletti dopo Papa Gregorio X, furono tutti di breve, di brevissima durata, perché nominati con la machiavellica intenzione che per la loro età o la loro salute o entrambe le cose, sul Sacro Soglio restassero poco, così da creare una situazione insostenibile e poi prenderla ancor più facilmente in pugno?

Non mi avvalgo delle centinaia di Papi che eroicamente resistettero davanti ai soprusi più sfacciati, alle angherie più ribalde, ai tormenti più atroci: querce indomite, spesso però dal fisico di fuscelli e di men che fuscelli, macerati poi di sovente anche da lunghi digiuni e da vere penitenze (allora digiuni e penitenze si comandavano e si facevano), la Chiesa offre boschi interi di forti Papi tanto ben radicati nell’amore a Cristo e nella fede che di tale amore è la sostanza più interna e inflessibile: queste querce, come Pietre son rimaste tutte al loro posto malgrado la violenza dei tormenti soffiasse sopra di esse e tutt’attorno – e certo anche nei loro cuori di carne, ben tremebondi com’erano per ciò che sapevano di essere se non avessero anche saputo che era il Signore a comandarli dov’erano –, cercando di spazzarli via come pagliuzze e anche abbruciarli.



Non mi avvalgo poi delle decine e decine di Papi propriamente e materialmente ‘martiri’, sarebbe troppo facile: il loro sangue si è sparso a fiotti per almeno tre secoli sulla rena del primo Cristianesimo davanti a plebi e imperatori che sghignazzando li avrebbero anche volentieri calpestati pur di annientare in loro il loro vero nemico, Cristo GESÙ.

Essi non si sottrassero al martirio, né al carcere durissimo, né ai lavori forzati, ma tutto assunsero nella loro intrepida ma anche trepidissima carne.

« “Simone di Giovanni, mi ami tu?” “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. “Pasci i miei agnelli”. ». Che è a dire: “Simone di Giovanni, vuoi vincolarti a me con il vincolo più forte della morte?” “Sì, Signore, lo voglio”. “Governa ciò che è mio”.

Neanche la morte può recidere un vincolo tre volte più forte della morte come è questo vincolo. Non c’è un vincolo tra Cielo e Terra più solido e indistruttibile di questo vincolo.

Dunque non mi avvalgo della storia. Ma è del Cristo che mi avvalgo. La storia nulla è, se non le si riconosce l’intima sua qualità di rivestire, di ricoprire, quasi di nascondere, un’essenza,

la quale essenza però, di suo, le sfugge, le è superiore, e la governa: i Papi, molti, moltissimi Papi si sono sacrificati fino a dare la vita, e non solo col sangue; molti, la maggioranza straripante, si sono interamente regalati all’amore totale e totalizzante per il loro Cristo e per il loro gregge, il quale è loro perché è del loro Cristo.



La storia dei Papi è stracolma di esempi straordinari di immolazione sull’altare della fede e dell’amore per il loro GESÙ. L’essenza rivestita dalla storia, immobile e sovrastorica, è l’amore divino che l’ha generata, che da Dio fluisce ma pure che a Dio ritorna attraverso l’immolazione dei suoi adoratori e seguaci.

Molti, non tutti, dicevo, sono i Papi ‘donatori di sé’: molti, e non tutti, perché la storia, schiava del diavolo, mille volte cerca di sottrarsi all’amore potente ma delicato di Cristo, e viene strattonata con le unghie e con i denti dal vile menzognero, malgrado l’amore del Cristo sia mille volte più ragionevole e diecimila volte più persuasivo delle insignificanti suggestioni del feroce e astutissimo suo imitatore.

Sull’Appia antica, all’incirca all’incrocio con la via Ardeatina, ai tempi della prima persecuzione di Nerone, gli Atti di Pietro, pur apocrifi, narrano comunque di un Pietro fuggiasco, che, impaurito, terrorizzato dalla ferocia neroniana scatenata come fuoco contro la nuova setta dei Cristiani, temendo di presto perdere la vita corre sulla strada che porta

a Brindisi, per poi lì imbarcarsi verso Israele, verso Ierusalem, ma si imbatte in GESÙ, che cammina in direzione contraria, verso l’Urbe: « Quo vadis, Domine? », « Dove vai, Signore? », stupefatto gli dice. E GESÙ: « Vado a morire al posto tuo, Simone ».

Notare bene: “Simone”, non “Pietro”.

Il fuggiasco non è più degno di portare il nome caricatogli dal Cristo, Cefa, Pietra, Roccia, ‘L’Infallibile certezza di altissima Verità’. Il pavido egoista e molto umano Simone, che certo avrebbe ricevuto la più totale comprensione dai de Bortoli, dai Galli della Loggia, dai Magris, dai Mancuso, dai Melloni, dai Messori, dagli Scalfari, dai liberali insomma di tutto il mondo di

dentro e di fuori della Chiesa, quasi il suo sia « per il bene della Chiesa » un gesto di libertà e di coraggio, « un gesto profetico », come sussiegosamente esclamano persino i laicisti più spinti,

si trova nudo nel suo antico nome di pescatore da nulla: un uomo slegato dalla Croce.

Ma qui ci si chiede se non si sia slegato, in qualche modo, anche dalla Provvidenza dei Cieli.



Ecco cosa succede quando un Papa (ma anche un vescovo qualsiasi, anche un chierico tra i tanti, dirò di più: persino l’ultimo dei fedeli) fugge dal luogo dove l’ha spinto Cristo a penare, a soffrire, forse a morire: succede che Cristo va a penare, a soffrire, forse anche a morire, sì, al posto suo.

Il fatto è che quella sofferenza qualcuno la deve fare, e la deve fare perché la deve offrire, perché il male non può andare perduto: il male, ogni singolo male, va redento, va riscattato,

ossia non solo va raccolto e tramutato nel bene originale che era, ma, con l’avvento di Cristo, va fatto salire alla pienezza del bene divino e di bene divino va riempito.

Cristo ha portato la croce nel mondo per togliere, « inchiodandolo alla croce » (Col 2, 14), il male dal mondo, come dice il Salmo: « Gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra

di me » (Sal 69, 10): il male, immane insulto dei demoni e dell’Inferno alla meraviglia dell’opera della creazione compiuta da Dio Padre, è ricaduto tutto sulla croce del Figlio,

tutto, così che essa ha raccolto tutto il male del mondo e lo ha inchiodato a sé. Tutti i fedeli di Cristo si lasciano compenetrare dal desiderio d’amore di dedizione di partecipare in crocifiggente pienezza al suo Sacrificio anche solo con la propria semplice vita quotidiana da nulla, con atti banali quali salire sui mezzi pubblici stracolmi, affrontare il freddo e il gelo per fare anche qualcosa di più del proprio dovere, non rispondere a un ingiusto rimprovero, preparare la tavola con amore anche quando a fine giornata si è prostrati dalla fatica,

pronti sempre a salire nell’immolazione in atti sempre più eroici – pubblici o silenti che siano – sempre nella più generosa offerta di sé, nell’obbedienza anche estrema alle leggi di Dio e a ogni suo volere, inchiodandosi in ogni modo comunque alla croce con lui e così, trafitti dai medesimi chiodi dal demoniaco insulto, in ogni attimo invece vincerlo.



Qui non ci si sta interrogando su quali possano essere le ragioni di un ripiegamento, perché o si sta alle ragioni addotte – « sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata,

non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino » –, o si possono aprire le porte alle illazioni più fantasiose, ma lasciando nell’angolo il punto fondamentale:

se le dimissioni costituiscano o non costituiscano un bene per la Chiesa, cioè se siano moralmente un lacerante vulnus o invece l’unica strada da prendere per il prosieguo del suo

cammino di evangelizzatrice e santificatrice del mondo.



Davanti alla Chiesa si sono assiepati in questi ultimi cinquant’anni conflitti teologici sempre più gravi, le eresie più antiche e pericolose si sono ridestate come serpi alzando il capo davanti e fin dentro le chiese di tutto il mondo senza che alcun Pastore le riconoscesse, le additasse, le fulminasse; la sconcezza della libertà di Rito si è sparsa per gli altari dell’orbe cattolico schiacciando al muro l’unico Rito che avrebbe avuto e difatti aveva la forza di combattere e vincere il liberalismo e il modernismo dedogmatizzante ora tanto vittorioso; per non dire delle terrificanti, squallide e odiose cancrene in cui sono stati e sono tutt’ora coinvolti a centinaia i suoi Pastori, e, di questi, proprio quelli che più dovrebbero mostrare integrità celestiale per il loro contatto con la purezza infantile; premono infine da ogni dove, ossia persino dalle voci inaspettate di cardinali ad alta visibilità e ad ancor più alto progressismo come il defunto Carlo Maria Martini, e in generale oramai direi da pressoché tutta l’universalità cattolica, che, avendo subito negli ultimi cinquant’anni una forte accelerazione alla propria già latente protestantizzazione dal Rito dedogmatizzato del Novus Ordo Missæ, ora non chiede che di uniformarsi, nei costumi, alle dottrine naturalistiche assorbite, premono, dicevo, le richieste per equiparare i costumi cattolici a valenza soprannaturale a quelli laicisti a valenza naturalistica, e quest’ultimo è forse, di tutti, l’elemento più vistoso, e magari anche lo scatenante.



La marcatura naturalistica è oramai nella Chiesa spiccatissima (vedi Comunione e Liberazione), il sentire semiprotestantico prepotente (vedi Bose, Taizé, Sant’Egidio, Neocatecumenali e Focolarini), e quelle pur larghe sacche cattoliche integre che ancora volentieri sarebbero anche disposte a rigettare l’una e l’altro, sono intimidite, intimorite oltre ogni dire dalla voce grossa e boriosa dei potentissimi laicisti e liberisti, i quali, esterni e interni alla Chiesa, dettano legge, nel senso che, appropriatisi da decenni dei registri accademici e

dei tabulati degli organici di filosofia, scienza, cultura, pedagogia, di tutte le arti e della comunicazione, impongono come vere e come naturali quelle leggi velleitarie e innaturali

che da se stessi si sono a propria misura procacciate.

Da qui le richieste di rivoluzionare finalmente i costumi concedendo per esempio la comunione alle coppie divorziate e ai risposati, il matrimonio alle persone dello stesso sesso,

il diritto alle medesime, una volta “sposate”, di adottare bambini, per non parlare delle pretese che si hanno nel vastissimo e delicatissimo campo del diritto alla vita, pressato dalla nascita alla morte da richieste germinate non da altro che dal più sfrenato naturalismo.

Ma perché non chiamarlo con il suo nome? Esso nient’altro è se non sfrenato puro e

semplice egoismo.



Tutte queste varie maree che sui due piani – teoretico sopra, pratico sotto – sono da tempo straripate nella Chiesa dopo il Vaticano II, che ha aperto le porte della doppia esondazione

allorché trapassò il linguaggio della Chiesa, da naturaliter dogmatico qual era, a simpliciter pastorale, che poi neanche pastorale è, come dimostro ne Il domani – terribile o radioso? – del dogma appena pubblicato, in tal modo polverizzando l’unica e sola diga veritativa che avrebbe potuto e dovuto tenere la Chiesa a propria difesa dal demonio e dal mondo, e, in sé, l’uomo, e intorno a sé la civiltà, la storia, l’avvenire tutto, per tutti tenere e tutti portare nella realtà.

Quindi si deve capire bene, a mio avviso, che non è certo questo il momento in cui – se per ipotesi la cosa si potesse realizzare, ma ora si vedrà che no: non si può – si possano

dare le dimissioni da Vicario di Cristo: la Chiesa è sotto schiaffo ora più che mai, e il timoniere, con gli argomenti portati, a mio avviso deve stare ben saldo, malgrado tutto, al suo posto di timoniere.

A Dio il sommo timone: egli sa commisurare le nostre forze alle altrui, e ciò mi basta.



Le dimissioni di Benedetto XVI vanno inquadrate in questo scenario ipodogmatico, a basso profilo veritativo, in questa che Amerio chiamava « desistenza dell’autorità », dove

dominano i gesti e i linguaggi artificiali, i gesti e i linguaggi di legno, finti, irreali, portati dal mondo nella Chiesa in occasione dell’assise di cinquant’anni fa, che siano quelli del linguaggio magisteriale piuttosto che quelli della liturgia, quelli delle nuove comunicazioni con cui ancora il magistero si inerpica con una certa dose di sprovvedutezza, tipo Biennale di Venezia o twitter, alla ricerca della società, o quelli di irrevocabili decisioni del supremo Pastore: magistero pastorale post Vaticano II, Novus Ordo Missæ e dimissioni papali sono tre eventi epocali, grandiosi, abnormi, protratti per decenni nel tempo o ratti come fulmine che siano non ha alcuna influenza né importanza: restano comunque artificiali, restano avvenimenti disgiunti, sconnessi, avulsi dalla realtà.



Il motivo per cui sono “di legno”, come ho detto, i linguaggi di magistero e liturgia post Vaticano II, lo spiego esaurientemente nel mio appena citato Il domani … del dogma;

quello invece per cui lo sono le attuali dimissioni papali lo argomenterò ora:



va considerato infatti che il canone 333 del Codice di Diritto Canonico, di recessione dal triplo mandato che le consentono(recessione del munus docendi, del munus regendi e del munus sanctificandi), non a caso voluto da quel Papa autodimissionato che Dante inchioda come vile (Inf., III, 60), Pietro da Morrone-Celestino V, usa assolutamente del potere che gli è conferito di monarca sommo e assoluto, ma è un canone che mette in contraddizione il papato con se stesso, e ciò, a mio avviso, non è possibile.

Infatti, nemmeno Dio usa assolutamente del suo potere assoluto, né lo potrebbe, ma solo relativamente, come ben spiegato da san Tommaso, che in primo luogo ricorda: « Nulla si

oppone alla ragione di ente, se non il non-ente » e spiega: « Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé simultaneamente l’essere e il nonessere.

Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così, resta che tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente »

(S. Th., I, 25, 3).




Solo la nozione di Dio degli Islamici è una nozione assolutista, perché per essa Dio è onnipotente nel senso che può persino – per tale sua illimitata potenza – volere di non essere

Dio. Ma san Tommaso mostra che Dio, Essere tutto in atto, non può volere ciò che repelle all’essere: lui, l’Essere, non può volere di non essere (e neanche lo può pensare).

Solo un Papa, si dice, può avere il potere di dimettersi, ma io dico che tale potere non l’ha neanche il Papa, perché sarebbe l’esercizio di un potere assoluto che contrasta con

l’essere di se stesso medesimo, di non essere quel che si è.

Ora, imporre a se stesso di non essere se stesso è impossibile, come si è visto essere impossibile persino a Dio, perché, come a Dio, ciò implica la contraddizione dell’essere.

Un occhio non può dire a se stesso di accecarsi, né un piede di rattrappirsi. Essi ricevono da altri la vista e il moto, e da altri ne riceveranno l’annichilimento. Certo, altri sono i

datori di vista e moto e altri i loro distruttori, come nel caso di un Papa i datori del suo essere sono i cardinali elettori e il suo rapitore Dio, ma, come si vede, i soggetti: occhio, piede o Papa che sia, per quanto perfetti in ciascuna delle specifiche loro forme di occhio, di piede e di Pontefice Massimo, sono del tutto impotenti in quanto alla loro propria vita e sussistenza.



Cosa vuol dire infatti “essere Papa”? Ecco cosa vuol dire:

come il sacerdote riceve uno status, un marchio – l’ordine del sacerdozio – che rimane in eterno, perché riceve dal vescovo la partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio

eterno, così anche la papalità riceve da Dio un munus spirituale: la vicarietà di Cristo Capo della Chiesa in eterno, che solo Dio può togliere. E Dio la toglie solo con la morte.

Ma la toglie solo al corpo che muore, non all’anima che non muore. È solo in questo senso che si dice che Dio fa scendere dalla Croce: perché il corpo ha smesso di soffrire.

I poteri che implicano l’eternità possono essere interrotti solo materialiter, non substantialiter, infatti chi è consacrato sacerdote rimane sacerdote in eterno, che egli sia post mortem eletto al Regno dei Cieli o gettato nelle fiamme perenni.

Nella Chiesa esiste un solo sacerdozio in Cristo, come sappiamo, ma i gradi di sacerdozio sono due: uno universale, al quale partecipano tutti i battezzati, e uno sacramentale, conferito con l’Ordine.

Ma anche questo grado di sacerdozio, metafisicamente parlando, si distingue in due gradi: uno

è quello di tutti i chierici, l’altro è quello, ad personam, conferito unicamente al Vicario di Cristo, al Papa, in virtù della sua vicarietà: egli solo è rappresentante di Cristo in terra.

Il Papa riceve da Dio ad personam un vincolo mistico tra sé e il Corpo mistico della Chiesa, vincolo che lo lega ad essa con un legame divino unico, che non ha assolutamente nessun altro membro della Chiesa, come ad essa con il suo amore divino – e dunque legame divino – è legato il Cristo.

Questo vincolo, tre volte stretto all’essere dal nodo perentorio della risposta « Signore, tu lo sai che ti amo » alla perentoria domanda di Cristo: « Simone di Giovanni, mi ami tu? », è un

vincolo che solo la morte può togliere.

Ma, ripeto, è, questa, un’interruzione unicamente materiale: l’amore proclamato e dunque affermato come ‘fatto dato nell’essere’, nell’essere rimane, e vi rimane in eterno.



Le dimissioni sono permesse legalmente, il canone congetturato dalla persona stessa che aveva maturato la volontà di dimettersi ne configura le modalità. Ma l’istituto delle

dimissioni non è stato mai indagato nella sua conformazione metafisica, e tutti hanno sempre ritenuto che esse potessero discendere dal potere assoluto del monarca, che può tutto, senza distinguere – come invece fa san Tommaso – tra potenza assoluta in sé e potenza assoluta relativamente alla ragione di ente, ossia al principio di non-contraddizione.

Le dimissioni non sono permesse metafisicamente, e misticamente, perché nella metafisica sono legate al nodo dell’essere, che non permette che una cosa contemporaneamente

sia e non sia, e nella mistica sono legate al nodo del Corpo mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta con il giuramento dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico non accidentalmente ma sostanzialmente diverso da quello lasciato: dal piano già alto del sacerdozio sacramentale di Cristo lo pone sul piano ancora più metafisicamente

e spiritualmente più alto di Vicario di Cristo.

Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo al dogma, dimissionarsi è perdere il nome di Pietro e regredire nell’essere di Simone, ma ciò non può darsi, perché il nome

di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino.

Il dogma rigetta il colpo, e non ne risente, perché l’atto, come solito, non è stato formalizzato dogmaticamente, ma ne risente la Chiesa nel suo ambito umano, che difatti accusa il colpo nella sua confusione estrema, nella prostrazione e nel turbamento massimi subito corsi per tutta la cattolicità.



Si può suggerire a un Papa ciò che il Papa deve fare? In linea di massima non si potrebbe, sarebbe cosa davvero massimamente disdicevole. Ma il momento è di tale gravità, è di tale straordinarietà, è di tale turbamento che si rende necessario osare ciò che in tempo ordinario è proibito, e qui si compie proprio questo atto: si osa mettere sul tappeto davanti al Trono più alto ciò che si considera essere un dato da prendere in seria considerazione, e ciò si osa fare prima che sia troppo tardi, prima che sia compiuto l’ineluttabile.

La considerazione finale è dunque questa, e la porto dopo aver fatto tutte le premesse che ho fatto sul valore assolutamente scientifico e dunque del tutto ipotetico delle mie osservazioni e argomentazioni, e il rispetto sommo da dare alla persona e ancor più alla figura del Sommo Pontefice.

Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non dovrebbe dimettersi, ma dovrebbe recedere da tale sua suprema decisione riconoscendone il carattere metafisicamente e misticamente inattuabile, e così anche legalmente inconsistente.

« Cristo fu tentato per tre volte dal diavolo nel deserto – dice sant’Agostino commentando il Salmo 60 –, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione [la fragilità, la minimanza, l’inettitudine], da sé la tua gloria [sulla sua croce], dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria ».

Con nell’animo queste considerazioni, non le dimissioni, ma il loro ritiro diventa sì un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa quanto la Chiesa abbia bisogno di un Papa

soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un Papa cui non inneggino i liberali di tutta la terra, ma gli Angeli di tutti i Cieli. Un Papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al Cielo che cento Papi dimissionati (quanti saranno da oggi in futuro i Papi).

Atto dunque dettato da argomenti soprannaturali, riconoscendo che dalla Croce gloriosa non si scende perché comunque non si può scendere, meglio: perché, pur tentati, non c’è la strada per scendere, e la strada che si intravvede non è vera, ma è una strada di nuvola, di niente, e tanto più non può scendere e percorrere quella strada inconsistente la persona del Papa: la propria libertà, in specie se libertà di Papa, è affissata, è inchiodata alla volontà divina, unica, potente e vera Realtà che sulla Croce mistica ha voluto con sé il suo Vicario.

* * *

Enrico Maria Radaelli

Director of Department of Æsthetic Phylosophy

of International Science and Commonsense Association (Rome)

www.enricomariaradaelli.it

16 febbraio 2013

San Giuliano

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