martedì 28 giugno 2011

ASSISI E L'ANTICRISTO (PARTE II)

Abbiamo visto nella prima parte che la dottrina dell’anticristo non sarà: “uomini non siate religiosi”.,ed in questa seconda parte approfondiremo per quale motivo non vorrà rendere tutti atei e “irreligiosi” o almeno in un certo senso.
2) Sebbene basterebbe quanto sopra esposto per dare conclusione all’argomento, vorrei chiarire maggiormente il motivo dell’errore iniziale ed in verità renderò, infine, soddisfazione a quanto sostenuto dall'autore dell'articolo.
E’ un dato di fatto che l’equazione, come anticipato, false religioni = approdo alla vera religione non è reale per il semplice fatto che escluderebbe proprio i così detti atei.
Il fatto di non credere a nulla sembrerebbe escluderli dalla salvezza?
Oppure li renderebbe più lontani dalla conversione?
Sarebbero gli unici impenitenti?
Suvvia, da ogni dove sento parlar di battesimo di desiderio, atto di carità perfetta, ignoranza invincibile e per gli atei nulla?
Noi sappiamo che le cose non stanno così, è evidente che anche in questo caso c’è un errore.
Ma sebbene Don Morselli sia ben preparato ed abbia riportato nell’articolo il passaggio da religione a fede egli parte nuovamente da un principio errato, vediamo:
La religione è una virtù morale facente parte della giustizia ed è una virtù avente per oggetto non Dio, come la Fede, virtù teologale, ma i mezzi ordinati al fine.(ST II-II Q 81 a5 r)
Ma come la religione non è la fede, ma una manifestazione della fede mediante i segni esterni, così la superstizione è una manifestazione dell’incredulità con atti esterni di culto.
Tale manifestazione viene indicata col termine di idolatria.

La cappella ecumenica di loppiano
Pertanto non è esatto chiamare “religione” le credenze dei popoli infedeli, ma correttamente deve essere chiamata idolatria.
L’idolatria però è un peccato grave, anzi è il peccato più grave di tutti.(in base al peccato in se stesso)
Infatti l’idolatria presuppone l’incredulità interna e vi aggiunge esternamente un culto abusivo.
Orbene l’incredulità, che si contrappone direttamente alla fede, in ordine alle virtù morali è il peccato peggiore di tutti, ma l’errore, il secondo principio errato, di Don Morselli è quello di ritenere gli atei e i “falsi religiosi” come due generi distinti di peccatori, mentre essi appartengono entrambi allo stesso genere, gli increduli, facenti parte di una specie diversa.
Gli atei rientrano in quell’incredulità di contrarietà alla fede: nel senso cioè che uno resiste alla predicazione della fede.
Non è nella natura dell'uomo avere la fede; però è nella n atura dell'uomo non opporsi mentalmente alle ispirazioni interne e alla predicazione esterna della verità.
Il peccato di incredulità nasce dalla superbia, che suggerisce all'uomo di non piegare la propria intelligenza alle regole della fede e alla sana interpretazione dei Padri.

Per cui S. Gregorio [Mor. 31, 45] afferma che "dalla vanagloria nascono le stravaganze dei novatori".(ma guarda un po’)
Ma questa definizione è da applicare a tutti gli increduli in generale.
Viene così a cadere l’opinione di ritenere gli atei come un genere diverso dai “religiosi” o che quest’ultimi siano più vicini a Dio e alla Vera Religione.
In fondo gli atei sono idoli di se stessi!
Che cosa dunque intendo dire? Che la carne immolata agli idoli è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa?
No, ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; 1Corinzi 10:19-20
Il simulacro non è nulla, poiché risulta immagine di cosa morta.
Ma sotto l’ombra dei simulacri, è il diavolo a ricevere culto.(Ambrosiaster 1Cor.X,19)
Non vi è vita che non provenga da Dio, perché Dio è la vita suprema e la sorgente stessa della vita. Nessuna vita, in quanto tale, è male, ma lo è in quanto volge verso la morte. Tuttavia la morte della vita non è altro che l'iniquità, la quale appunto è così chiamata perché non è nulla, ed è per questo che gli uomini più iniqui sono chiamati uomini da nulla. La vita dunque volge verso il nulla se, per volontaria colpa, si allontana da Colui che la creò e della cui essenza godeva, per poter godere, contro la legge divina, delle realtà corporee alle quali Dio l'aveva preposta. In questo sta l'iniquità (S. Agostino - La Vera Religione 11,21).
Ora se l’idolo non è nulla e l’ateo crede al nulla risulta che l’idolatra è identico, nel genere, all’ateo.
Entrambi credono al nulla e così facendo rendono culto a satana non a Dio, con questo è risolta anche la questione di Cornelio (3) che, come dice san Tommaso, era già ascritto tra i fedeli.
Non sarebbe potuto essere altrimenti, per questo motivo fu ben accetta la sua preghiera, quindi l’esempio non regge.(cfr. p. II-II Q10 a. 4 ad 4)Senza la fede è impossibile piacere a Dio!
Nessuna preghiera è ben accetta a Dio senza la Fede.
Invece dobbiamo dire che qualsiasi peccato consiste formalmente nell'allontanamento da Dio.
Perciò un peccato è tanto più grave quanto più l'uomo con esso si allontana da Dio.
Ora, l'uomo si allontana da Dio nella maniera più grave con l'incredulità
(non di pura negazione): poiché viene a mancare persino della vera conoscenza di Dio; e con una conoscenza falsa non si avvicina a lui, ma si allontana maggiormente.
E chi ha una falsa idea di Dio non può averne neppure una conoscenza parziale: poiché ciò a cui egli pensa non è Dio.
È quindi evidente che il peccato di incredulità è più grave di tutti i peccati che avvengono nel campo delle virtù morali.
(ST p II-II Q 10 a.3 r)
Viene così confutata la tesi per cui per arrivare alla Vera Religione si deve, comunque, essere prima religiosi… scusate, idolatri.
C’è da dire che questo modo di pensare, cioè di arrivare alla verità attraverso altre “vie” è riportato nella dichiarazione (sic!) Nostra Aetate del concilio Vaticano II: “Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto”.
Mentre la dottrina cattolica insegna che si perviene alla fede e quindi alla Vera religione solo attraverso la grazia santificante, dono gratuito di Dio attraverso una premozione che presuppone la libera scelta dell’individuo mosso, ora siccome Dio muove tutti verso il fine ultimo che è lui stesso, sommo Bene, non possiamo dire che la premozione possa avvenire per mezzo di strumenti inadeguati o che, nel caso dell’idolatria, l’intelletto e la volontà sia mossa per mezzo di segni contrari a quelli di Dio o comunque ingannevoli.
Da quanto abbiamo sopra esposto, tutto il discorso viene fatto cadere, ritenere il nulla un qualche cosa significa porre sullo stesso piano ciò che non è da ciò che è, questo non è altro che il pernicioso errore dell’indifferentismo e del sincretismo, che è insito nelle tesi di chiunque voglia sostenere un dialogo con credenti del nulla, idolatri.
Il sincretismo e l’indifferentismo stanno proprio in questo credere che l’idolatria, o come la chiamano, falsa religione, sia qualcosa, mentre san Paolo ai Corinzi afferma proprio il contrario.
Il Padre, il Figlio è lo Spirito Santo è l’unica Verità, al di fuori v’è il nulla.
Pertanto la virtù di Religione”praticata come uno meglio può” è solo quella nell’unica fede cattolica, perché, sotto varie specie, rientrano nell’incredulità i pagani, gli atei (comunque pagani), gli eretici, gli scismatici e i “fratelli maggiori nella fede” ma tutti appartengono al genere degli increduli.
In fondo, però, don Morselli aveva ragione, l’anticristo vuole che tutti credano al nulla e che tutti siano senza Dio ma la conclusione giusta, in questo caso, è solo per accidens perché, come dimostrato, i principi sono errati e da un errore di partenza può risultare una conclusione giusta solo, appunto, per accidens.
Confondere l’idolatria con la religione, la fede con l’incredulità è già indifferentismo e sincretismo.
Se queste sono le motivazioni per l’incontro di Assisi:Santo Padre io ho paura!
                                                                                                                      Stefano Gavazzi

mercoledì 22 giugno 2011

ASSISI E L’ANTICRISTO (PARTE I)

Prendo le mosse da un articolo apparso sul quotidiano Il Foglio, in data 10 gennaio 2011, di Don A. Morselli, per parlare della prossima riunione di tutte le religioni del mondo che si terrà in terra umbra in quel di Assisi.(l’articolo integrale potrete trovarlo Qui)
Il titolo del pezzo era:”Santo Padre, io non ho paura!”
L’articolo in un passo così diceva: Ciò che mi induce a valutare positivamente l’evento di Assisi è sostanzialmente una frase di San Tommaso, il quale insegna che, negli ultimi tempi, l’anticristo sarà avversario di ogni uomo religioso, pur seguace di false religioni: “L’anticristo si prepone a tutte… le modalità di intendere Dio”, anche nel caso Dio “si dica secondo [una qualsiasi] opinione [come nel caso dei falsi dei pagani, delle cui divinità sta scritto] tutti gli dei delle nazioni sono demoni”
Possiamo riassumere così i punti che, secondo il nostro, debbano indurre a valutare positivamente l’evento di Assisi:
1)      l’anticristo si prepone a tutte ..etc.La sua dottrina sarà:”uomini non siate religiosi”
2)      Per poter scegliere la vera religione- , innanzi tutto bisogna essere religiosi
Giasone e il vello d'oro
3)      Assisi è una riunione per mezzo della quale il Papa indica al mondo la necessità di essere religiosi, invita gli uomini ad essere religiosi quanto è loro dato ed essi possono (si suppone, è chiaro, la buona fede), senza dire che tutte le religioni sono buone e lodevoli. E lodevole la virtù di religione praticata come meglio uno può, come il centurione Cornelio, non le false religioni in quanto…
Ora analizziamo punto per punto:
1) Don Morselli parte da un principio errato (in realtà due come vedremo) e chi inizia da un principio errato, come insegna san Tommaso, è incorreggibile.
Il Principio errato è quello di pensare che satana attraverso l’anticristo voglia rendere tutti atei per tenerci lontano da Dio, ma ciò presuppone, il sacerdote non lo spiega, che ogni religione possa invece avvicinare a Dio ed essere un vantaggio, infatti egli dice  che basterebbe solo “ricapitolare”.
Ora è insegnamento unanime dei Padre della Chiesa che le false religioni sono invenzioni degli uomini soggiogati da satana che possiede l’anima dell’uomo fino al battesimo.
Riporto solo un passo di sant’Atanasio: gli uomini allontanando lo sguardo dai beni eterni e volgendolo alle cose corruttibili per suggerimento del diavolo, sono divenuti causa della propria corruzione…divenendo fin dall’inizio inventori del proprio male.(L’incarnazione del Verbo I,5)
Il santo sottolinea, appunto, che gli idoli allontanano da Dio, non il contrario.
C’è da sottolineare un’altra cosa, la frase di San Tommaso si riferisce al commento della seconda lettera ai Tessalonicesi, la traduzione francese, italiana e latina è un po’ diversa da quella data dal nostro (forse perche tradotta a tratti) ma è lo stesso  passo della lettera di San Paolo Apostolo  che viene adattato.
colui che si contrappone e s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio.” “qui adversatur et extollitur supra omne quod dicitur Deus aut quod colitur ita ut in templo Dei sedeat ostendens se quia sit Deus » (2Tess 2,4)
Il passo deve intendersi in questo senso a mio modesto parere:” Satana, dopo aver con la menzogna inventato tutta una serie di falsi dei e di false religioni per allontanare l’uomo dal Vero ed Unico Dio uno e trino, trasferendo tutti i suoi poteri e possedendo suo “figlio” farà in modo tale che egli si opponga agli stessi falsi dei, creati da lui, per spazzarli via affinché possa regnare ed essere idolatrato come Dio sopra tutti gli uomini increduli e se possibile anche su quelli che credono al vero Dio”
E’ da notare infatti che il Deus che ricorre più volte è scritto in tutta la frase in maiuscolo per specificare coloro che, comunque, hanno creduto in un falso dio sostituendolo con il vero Dio, infatti l'apostolo dice "ogni essere" ma noi sappiamo che non è "ogni essere" che viene detto Dio ma solo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e “culto” è riferito ad “ogni essere”, questo ci fa intendere che essi comunque sono emanazioni di satana non certo tendenza a Dio. (Deus appunto)
Satana vorrà che solo a lui, o meglio all’anticristo, se possibile, si renda il culto di religione.
Il Dottore Angelico infatti dice questo: La colpa dell’Anticristo è doppia:
la prima colpa è l’avversione a Dio; perciò dice che <si contrappone> a Dio e a tutti gli spiriti buoni; di Gerusalemme e dei Giudei Is.3,8 dice: <La loro lingua e le loro opere sono contro il Signore fino a offendere la vista della sua maestà divina>;
la seconda colpa è che preferisce se stesso al Cristo; perciò dice che <si innalza…>.
Ma in che senso l’Anticristo si preferisce al Cristo?
Potrebbe esserci una risposta in Dn.11,36: <Si innalzerà, si magnificherà sopra ogni dio e proferirà cose inaudite contro il Dio degli dèi.
L’Apostolo pone il segno della colpa, quando dice: <fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio>.
Infatti la superbia dell’Anticristo (che è un uomo, commento mio) è più grande della superbia di tutti coloro che l’avevano preceduto. (compresi gli dei) Nel mirino dell’anticristo ci sono, però, gli eletti (Marco 13,22) non certo quelli che suo padre, satana, aveva irretito con i falsi dei.
San Tommaso dice: L’Anticristo  viene detto anche <il figlio della perdizione>, ossia destinato all’ultima perdizione; oppure viene chiamato <il figlio della perdizione>, cioè figlio del diavolo; figlio del diavolo  non per natura,   ma per il compimento della sua malizia, che in lui sarà completa.
E dice che <dovrà essere rivelato>, perché come tutte le cose buone e le virtù dei santi, che precedettero il Cristo, furono una figura di lui, così in tutte le persecuzioni della Chiesa i tiranni furono una specie di figura dell’Anticristo e in essi si nascondeva  l’Anticristo e così tutta la malizia che si celava in essi, si svelerà nell’Anticristo.
E San Tommaso aggiunge: Il diavolo, col potere del quale viene l’Anticristo, già comincia a operare occultamente la sua iniquità per mezzo dei tiranni e dei seduttori, perché le persecuzioni della Chiesa di questo tempo sono figure dell’ultima persecuzione contro tutti i buoni, e confrontate con l’ultima persecuzione le attuali persecuzioni sono imperfette. (Don Giuseppe Sala supra II Thess. – San Tommaso D’Aquino)
Satana ha sempre operato inventando, con l’aiuto degli uomini, i falsi dei come specifica sant’Attanasio:gli uomini allontanando lo sguardo dai beni eterni e volgendolo alle cose corruttibili per suggerimento del diavolo, sono divenuti causa della propria corruzione…divenendo fin dall’inizio inventori del proprio male.(Supra)
Il nostro forse non sottolinea che satana utilizzerà lo stesso anticristo per il suo scopo: portare a perdizione più anime possibile ma non certo quelle già in suo potere, che seguono già le sue opere.
Infatti è risaputo che “satana scaccia satana” come insegna nostro Signore Gesù Cristo ed è proprio per questo che il suo regno, discorde in se stesso, andrà in rovina.
Si deve infine ricordare che, secondo la profezia di Daniele e la stessa lettera dell’Apostolo nel commento di San Tommaso troviamo:
Ci sarà l’apostasia.
Di che si tratta?
L’apostasia è interpretata almeno in due modi:
In primo luogo l’apostasia dalla fede
In secondo luogo l’apostasia dall’impero romano al quale tutto il mondo era sottomesso.
Ora, S. Agostino dice che questo viene prefigurato da Dn.2,31, nella statua, in cui sono denominati quattro regni e dopo di loro la venuta di Cristo; l’impero romano è stato istituito per questo motivo, che sotto il suo dominio la fede venisse predicata in tutto il mondo.
Bisogna dire che l’apostasia dall’impero romano si deve intendere  non solo dalla parte temporale,
 ma anche dalla parte spirituale, cioè dalla fede cattolica della Chiesa romana.
Come Cristo è venuto quando l’impero romano dominava su tutti, così, viceversa, il segno dell’Anticristo è l’apostasia dall’impero.
Evidentemente il nostro ha colto solo la seconda parte della lettera vedendo l’anticristo ma non l’apostasia.
In realtà questa interpretazione è più vicina alla traduzione francese (del passo sul commento a 2 Tess 4), che però risulta diversa dalla versione della vulgata, che recita: Qui s’opposant à Dieu, s’élève au-dessus de tout ce qui est appelé Dieu, ou qui est adoré, jusqu’à s’asseoir dans le temple de Dieu, voulant lui-même passer pour Dieu.Dunque che si oppone a Dio, non so dire perché San Tommaso interpreti la frase in questo modo, ma la versione latina lascia intendere ….dicitur Deus.
Comunque il venerabile Beda dice:Verrà in suo nome l’Anticristo che, essendo l’uomo più nefasto di tutti e avendo per compagno il diavolo, pretenderà di chiamarsi figlio di Dio, avversando ed elevandosi “sopraogni cosa che si chiama Dio o viene venerato”.
Teodoreto di Cirro, invece, così commenta: Come, infatti, costui (Antiochio Epifanio) costrinse i Giudei ad essere irreligiosi e a vivere contro la legge, così l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, che sarà sollevato e innalzato al di sopra di tutti quelli che sono chiamati dei o di qualunque cosa si adora come dice san Paolo, cosicchè una volta entrato nel Tempio di Dio, rivelando che egli in persona è Dio con ogni presagio e prodigio menzognero; così costui macchinerà ogni inganno nei confronti degli uomini devoti, ora tentando di ingannarli e indurli in errore con falsi miracoli…..Il fatto importante è che l’interpretazione personale che ho dato del passo è in linea con quello dei Padri della Chiesa mentre quello dell’autore non sembrerebbe esserlo.
Cosa ancora più importante quella non è l’interpretazione di San Tommaso!
Credo però che l’interpretazione più chiara  sia questa:Infatti costui, prendendo su di sé tutta la potenza del diavolo, verrà non come re giusto, né come un re legittimo che rimane nella sottomissione a Dio, ma come un re empio, ingiusto e senza legge, come un apostata, iniquo e omicida, come un diavolo ricapitolando in sé tutta l’apostasia del diavolo;egli deporrà tutti gli idoli per convincere che lui solo è Dio ma elevandosi come l’unico idolo.(Ireneo di Lione)
Quindi è evidente che la sua dottrina sarà: Io sono Dio!
Risulta così errato il principio per cui satana per mezzo dell’anticristo vorrà rendere tutti atei oppure che li avverserà perché credono ad un falso dio, egli s’innalzerà per far credere di essere lui stesso Dio a cui si deve il vero culto, la “vera religione”.
L'interpretazione "uomini non siate religiosi" mi sembra lontana dalla realtà.
Che si creda a budda o piuttosto che ad allah, o a nessun falso dio come per gli atei, a satana non interessa, lui stesso sa che sono sue invenzioni, esso vuole che non si creda nell’unico vero Dio, vuole sottrarre anime a Dio e, come vedremo, tra questi ci sono anche gli atei.
Sarebbe come dire:”crediamo in qualcosa, almeno siamo preparati contro l’anticristo!”
Tutti coloro che professano le false religioni sono già in suo potere, al massimo potranno passare dalla loro falsa religione a quella falsa dell’anticristo.


                                                                                                                      Continua…..

mercoledì 15 giugno 2011

IL TORMENTONE DI GIUGNO

Ricevo e pubblico questo articolo proveniente dal sito Unavox

La regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X


Eccoci arrivati a ridosso della festa dei SS. Pietro e Paolo.
In genere, a partire dalla fine di giugno, molte strutture ecclesiastiche si concedono una sorta di riposo. Prelati, officiali e seminaristi vanno in vacanza, o quasi. Una sorta di rallentamento delle annuali incombenze.
Proprio a ridosso di questa data sono accadute alcune cose notevoli. Per tutte ricordiamo la pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, avvenuta il 7 luglio, senza però dimenticare la data del 2 luglio, giorno della “grande scomunica” precipitosamente inflitta dalla misericordiosa “Chiesa del Concilio” ad uno dei suoi vescovi: Mons. Marcel Lefebvre, reo di coltivare “una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione” e contraddittoria perché “si oppone al Magistero universale della Chiesa, di cui è detentore il Vescovo di Roma e il Corpo dei Vescovi.” (Motu Proprio Ecclesia Dei del 2 luglio 1988).
In quella occasione, Giovanni Paolo II, riferendosi alla consacrazione dei quattro nuovi vescovi della Fraternità San Pio X, sottolineava che “ Non si può rimanere fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona dell'apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell'unità nella sua Chiesa.” Una affermazione che centra il problema che da diversi anni infiamma le passioni di molti cattolici: il valore primario dell’unità della Chiesa.
Non si tratta certo di una cosa di poco conto, ma spesso abbiamo dovuto constatare che questa istanza, non solo legittima, ma anche  sacrosanta, ha finito col prendere il sopravvento su quella che è sempre stata la suprema legge della Chiesa: la salvezza delle anime.
Quando l’unità della Chiesa finisce con l’essere perseguita anche a scapito del bene delle anime, è inevitabile chiedersi di quale Chiesa si stia parlando.

In questo giugno 2011, ecco che ritorna un altro motivo ricorrente del tutto connesso con questa nostra premessa: la regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X… lo esige l’unità della Chiesa.
Ora, questa questione, che sembrerebbe pronta per essere affrontata adesso che si concludono i noti colloqui fra la Santa Sede e la Fraternità, è in realtà vecchia di più di 10 anni.

Era l’anno 2000 quando più di seimila fedeli cattolici provenienti dai cinque continenti si riunirono a Roma, per lucrare le indulgenze del Giubileo, sotto l’egida della Fraternità San Pio X e al seguito dei suoi quattro vescovi “scismatici”. In quella occasione, con grande sorpresa di chi aveva sempre dato poco peso ai “ribelli di Lefebvre”, si scoprì che esistevano dei bravi cattolici che rifiutavano il Concilio e ciò nonostante pregavano per il Papa e dimostravano una compostezza e una dignità ormai andata perduta negli ordinari raduni ecclesiastici del post-concilio. Tanta fu la sorpresa che l’allora Prefetto della Congregazione per il Clero, il card. Castrillón, invitò a colazione i quattro vescovi “scismatici” per conoscerli meglio. Da lì partì l’iniziativa del cardinale per riuscire a trovare una composizione allo strappo del 1988. E partirono le prime proposte di regolarizzazione, delle quali si continua a parlare ancora oggi.
Tra alti e bassi, da allora la Fraternità ha tenuto regolari rapporti con Roma, ed è in questo contesto che sono nate le note richieste della Fraternità di liberalizzazione dell’uso del Messale tradizionale e di revoca della scomunica, il tutto in concomitanza con le reiterate sollecitazioni di Roma perché accettasse una regolarizzazione canonica.
Il card. Castrillón riuscì, nel 2001, a sanare la posizione canonica del gruppo di Campos, creando una Amministrazione Apostolica personale, e da subito pensò di poter adottare una decisione simile anche per la Fraternità: Amministrazione Apostolica o Prelatura Personale.

Quando nell’aprile del 2005 fu elevato al Soglio Pontificio il cardinale Ratzinger, Benedetto XVI si affrettò a convocare a Roma, in agosto, il Superiore Generale della Fraternità, Mons. Fellay, a dimostrazione che voleva avviare a soluzione l’annosa questione che lui stesso aveva trattato come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede direttamente col compianto Mons. Lefebvre. Com’è noto il lavoro del card. Ratzinger e di Mons. Lefebvre non portò allora ad alcuna conclusione, nonostante la firma del famoso “protocollo” del 1988, che Mons. Lefebvre denunciò subito per il tentativo di Roma di costringerlo alle corde per mezzo di una consacrazione episcopale pilotata. È risaputo che il card. Ratzinger ha sempre rimpianto il mancato accordo, al pari, per esempio, del mancato chiarimento sul famoso “terzo segreto” di Fatima, nonostante e forse anche grazie alla nota dichiarazione sulla rivelazione del terzo segreto del 2001.
Il card. Ratzinger, divenuto Benedetto XVI, conosceva bene la questione ed era perfettamente al corrente delle richieste avanzate dalla Fraternità fin dal 2000, come era perfettamente conscio del fatto che non bastava la scomunica per definire una questione così complessa come quella delle tante riserve espresse da più parti, e non solo dalla Fraternità, nei confronti del Concilio.  Occorreva decidersi a trovare una soluzione, non tanto per cedere alle richieste della Fraternità, quanto per mettere dei punti fermi sulle annose questioni dell’ingiustificato abbandono della liturgia tradizionale e del pericoloso declino in cui si era venuta a trovare la Chiesa a partire dal Concilio.
Da allora, le offerte di composizione canonica alla Fraternità, presentate direttamente o indirettamente, si sono moltiplicate, e quasi ogni anno è sembrato che ci fosse già pronto uno schema di accordo che bastava sottoscrivere.

Intanto, due anni dopo essere diventato Papa, Benedetto XVI sciolse il primo nodo importante: la Messa tradizionale non è mai stata abolita, quindi ogni sacerdote può celebrarla liberamente. Fu il Motu Proprio Summorum Pontificum, e fu la soluzione di un incredibile equivoco protrattosi per quasi 40 anni, come se non fosse risaputo che la Chiesa non poteva cancellare duemila anni di liturgia con un colpo di mano, sia pure avallato da un Concilio e da un Papa.
Era inevitabile che qualcuno gridasse allo scandalo, poiché sembrò che il Papa avesse ceduto alla prima delle richieste della Fraternità. In realtà il Papa sapeva benissimo che Paolo VI aveva permesso un abuso e lo aveva sottoscritto, ma ancor meglio sapeva che, senza quella soluzione, il problema della Messa tradizionale sarebbe divenuto il grande problema della Chiesa. Altro che atto scismatico di Lefebvre, come aveva scritto Giovanni Paolo II, ormai si correva il rischio di vedere crescere due chiese in una… meglio allora due liturgie nella stessa Chiesa.
Ovviamente, la pubblicazione del Motu Proprio servì a fare ulteriori pressioni sulla Fraternità, perché, si diceva, di fronte alla avvedutezza e alla magnanimità del Papa era inconcepibile che questa si ostinasse ancora a non accettare una qualche forma di regolarizzazione canonica. Si incominciarono a contare a migliaia coloro che gridavano all’incomprensione: … ma come, adesso la Messa ce l’abbiamo!
Il fatto è che, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per un gran voglia di vivere tranquilli, tanti chierici e laici facevano finta di non sapere che la Chiesa non era in crisi per la mancanza della Messa tradizionale o per l’ostinazione della Fraternità, bensì per la deriva dottrinale che la pervade da più di 40 anni sulla base del Concilio e dei suoi frutti.
Quando poi quest’appunto veniva avanzato dalla Fraternità… àpriti cielo! Ma che pretese! Ma chi si credono di essere! E tutti trovavano comodo scaricare sulla Fraternità la responsabilità di una critica che invece era nel cuore di tanti, prelati compresi.

Così, tra un’offerta di Roma e un rifiuto di Ecône, si giunse, ad appena un anno e mezzo dal Motu Proprio, alla remissione della scomunica. I quattro vescovi non sono più scismatici a partire dal 21 gennaio 2009. E giù illazioni, supposizioni, ipotesi, e ancora pressioni, sollecitazioni e progetti. Adesso sì… la Fraternità non ha più scuse, la generosità del Papa è tale che annulla ogni tergiversazione… che a questo punto diventa colpa grave!
Ecco l’accordo, firmatelo!
Peccato che il Papa, in quella occasione, si affrettò subito a precisare che, sì la scomunica non ce l’hanno più, ma quei vescovi non possono esercitare legittimamente il loro ministero a causa della loro posizione canonica irregolare, derivata dalle loro critiche all’andamento dottrinale sorto col Concilio.
Come dire: attenzione! Sono vescovi della Chiesa cattolica, sono in comunione con me che sono il Papa, ma non possono fare i vescovi.
A chi sembrerà eccessivo un tal modo di presentare la cosa e tenuto conto che non è questa la sede per fare un discorso “tecnico”, ricordiamo solo che la riserva espressa dal Papa si basa sul fatto che questi vescovi, sebbene non più scismatici, mancano di giurisdizione formale, cioè non hanno canonicamente un loro ambito entro il quale esercitare il ministero che è proprio del vescovo. Ogni vescovo è tale in quanto capo di un pezzo della Chiesa, e la Fraternità non sarebbe ancora, canonicamente, un pezzo della Chiesa. Chi si intende un po’ di giurisprudenza capisce che stiamo parlando, non di cose serie, ma di cose da avvocati, che è tutto dire.
Ci si permetta l’ingenuità di una domanda: ma quanti vescovi ci sono nella Chiesa, e in particolare a Roma, che non sono a capo di un pezzo di Chiesa e a cui non si dice che non possono esercitare legittimamente il loro ministero? Parliamo di quelli che hanno una giurisdizione solo sulla carta, una giurisdizione pro forma, ma in realtà sono vescovi di niente e di nessuno, contrariamente ai quattro vescovi della Fraternità che sono vescovi di una struttura ecclesiale con sacerdoti e religiosi e presiedono alla cura delle anime di qualche milione di fedeli.
La Chiesa ha tanti misteri, ma a volte i preti esagerano!

Non passano neanche 3 mesi, ed ecco che viene annunciato che la Santa Sede aprirà un tavolo di discussione con la Fraternità, a partire da ottobre 2009, per cercare di mettere a fuoco tutta la problematica sollevata dal Concilio. Il comunicato emesso dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei subito dopo lo svolgimento del primo colloquio precisava: “esamineranno le questioni relative al concetto di Tradizione, al Messale di Paolo VI, all’interpretazione del Concilio Vaticano II in continuità con la Tradizione dottrinale cattolica, ai temi dell’unità della Chiesa e dei principi cattolici dell’ecumenismo, del rapporto tra il Cristianesimo e le religioni non cristiane e della libertà religiosa”.
Altro che “incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione”, come pensava Giovanni Paolo II, qui si tratta di ben altro, dice Roma, si tratta di far luce su una marea di questioni oscure sorte a partire dal Concilio e che interessano aspetti essenziali della vita della Chiesa e della fedeltà alla dottrina cattolica.
Tutte le opinioni possono pure essere espresse, ma il fatto rimane: la Santa Sede non sconfessa la Fraternità, dopo vent’anni dal supposto “scisma”, ma la convoca per discutere… per discutere del Concilio e dei suoi frutti.
Finalmente cade la maschera dell’ipocrisia, non di irregolarità canonica si trattava, non di indisciplina ecclesiastica, non di disobbedienza al Papa, ma di problemi veri, di problemi seri, di problemi relativi alla liturgia e alla dottrina cattoliche, problemi che richiedono un serio confronto tra la Congregazione della Dottrina della Fede, sotto la guida del Papa, e la tanto bistrattata Fraternità, per quarant’anni accusata di ogni sorta di ribellione. Problemi che toccano la suprema
 legge della Chiesa: la salvezza delle anime.

E la regolarizzazione canonica?
Per anni la Fraternità ha dichiarato pubblicamente che non era una questione canonico-logistica che l’assillava, quanto una questione dottrinale, di fronte alla quale passava in secondo piano perfino la vita stessa della Fraternità, il riconoscimento dei suoi vescovi, la tranquillità pastorale dei suoi sacerdoti, la pace religiosa dei suoi fedeli. La fedeltà alla Tradizione della Chiesa, la fedeltà alla Verità, vale bene ogni sacrificio, ogni rinuncia, ogni vessazione, ogni ostracismo… ogni condanna.
Non regolarizzazione canonica, quindi, ma il riconoscimento da parte di Roma che il problema non sta nella Fraternità, ma in seno alla stessa Chiesa odierna.
Ciò nonostante, però, si ribadisce: liberalizzato l’uso del Messale tradizionale, rimessa la scomunica, svoltisi i colloqui dottrinali… non rimane che concludere un accordo per la regolarizzazione canonica della Fraternità.

Vediamo perché.

Primo punto: il Papa avrebbe dimostrato una generosità e un coraggio senza pari nel venire incontro alle richieste della Fraternità, liberalizzando l’uso della Messa tradizionale, rimettendo la scomunica e intavolando i colloqui con una vistosità e una esposizione impensabile e per molti inconcepibile.
Ma è davvero così?
Lo abbiamo scritto tante volte. Se il Papa avesse fatto tutto questo per venire incontro alle richieste della Fraternità, non si sarebbe dimostrato coraggioso e generoso, ma temerario e superficiale, poiché è evidente che nessuna Fraternità, sia pure in buona fede, può costringere il Papa a fare il bene di una parte piuttosto che il bene della Chiesa e delle anime. Se invece il Papa ha fatto ciò che ha fatto per il bene della Chiesa, come è logico e giusto che sia, allora temerari e superficiali sono coloro che parlano di coraggio e generosità del Papa, poiché cosa può fare un Papa se non perseguire il bene delle anime?

Secondo punto: il Papa ha avuto primariamente in vista l’unità della Chiesa. Ma si può perseguire l’unità della Chiesa liberalizzando l’uso del Messale tradizionale e sancendo per la prima volta in duemila anni un anomalo biritualismo foriero di confusione e di divisione? Si può perseguire l’unità della Chiesa annullando una sacrosanta scomunica nei confronti di un gruppo di ribelli che rifiutano il Concilio e contestano le decisioni del Papa? Si può perseguire l’unità della Chiesa dichiarando pubblicamente che il Concilio, i suoi documenti, la sua liturgia, la sua pastorale, sono da discutere, da riesaminare, da ridefinire, e proprio sulla base delle richieste partigiane dello stesso gruppo di ribelli?
Anche su questo abbiamo scritto tante volte. Se il Papa avesse fatto tutto questo per salvaguardare l’unità della Chiesa anche a costo della confusione, del riconoscimento dell’aperto dissenso e della messa in discussione di tutto ciò che il Magistero ha detto e fatto dal Concilio in poi, avrebbe dato prova di perseguire, non il bene delle anime, ma il raggiungimento di un fine pratico, più ideologico che teologico, poiché è evidente che seguendo questa logica si delineerebbe una Chiesa multiforme e prometeica, che sarebbe sì unita, ma avendo messo insieme tutto e il contrario di tutto, con il più grave nocumento possibile per il bene delle anime. Se invece il Papa ha fatto ciò che ha fatto per il bene della Chiesa e delle anime, come è logico e giusto che sia, allora non si potrà più parlare di priorità dell’unità, ma di necessità di fare chiarezza anche a costo di avviare la messa in mora della liturgia riformata, l’allontanamento dei vescovi che hanno arrecato danno alla Chiesa, la revisione di tutte le ambiguità e le deviazioni sorte nel Concilio e sviluppatesi nel post-concilio.
E si dovrà convenire che in tutto questo la Fraternità non è importante, se non per la funzione di stimolo che ha provvidenzialmente svolto in questi anni.

Terzo punto: la legittimazione canonica della Fraternità permetterebbe alla Chiesa di servirsi regolarmente e proficuamente dell’apostolato dei suoi chierici e dei suoi laici, che potrebbe essere svolto senza quegli impedimenti formali e psicologici che lo hanno limitato fino ad ora.

Ci ripetiamo, ma siamo costretti a invitare ad andare a rileggere ciò che abbiamo scritto in questi anni sull’argomento, ben consapevoli che anche le nostre considerazioni sono frutto di un punto di vista particolare che non può arrogarsi il diritto di valere per tutto e per tutti.
Quando, a partire dal 2000, il cardinale Castrillon inaugurò la nuova fase dei rapporti fra la Santa Sede e la Fraternità, una delle giustificazioni avanzate da più parti, in verità più borbottata che dichiarata, fu proprio questa del gran bene che poteva venire a tutti dall’immissione formale nel corpo ecclesiale di truppe fresche, agguerrite e ben armate da contrapporre alle schiere dei modernisti.
Questo ragionamento, che abbiamo avuto modo di ascoltare ripetutamente ai livelli più diversi, rivela però un problema gigantesco, tutto interno al corpo ecclesiale. Problema che nacque subito dopo la conclusione del Concilio, che assunse dimensioni inquietanti dopo l’entrata in vigore della liturgia riformata e che esplose con la diffusa attuazione dei disposti conciliari attraverso gli insegnamenti e le pastorali delle Congregazioni e delle Conferenze Episcopali.
Tolto il caso di Mons. Lefebvre e della sua Fraternità, e tralasciando i tanti sacerdoti che hanno subito l’ostracismo e i tanti fedeli che sono stati trattati per anni come degli appestati… tutta gente prevenuta e “ideologizzata”, ovviamente! Quanti vescovi e cardinali, quanti sacerdoti e quanti fedeli si sono alzati per denunciare a gran voce lo scandalo di una crisi della Chiesa generata dalla deriva dottrinale e dallo sfacelo liturgico? Quanti si sono esposti alla discriminazione e alla condanna pur di dire la verità? Quanti hanno pensato innanzi tutto alla conservazione del loro stato piuttosto che al loro dovere di stato? E quanti si sono industriati per giustificare anche l’ingiustificabile? E ancora quanti si sono trincerati dietro l’ubbidienza al Pontefice e ai vescovi? E poi quanti si sono accontentati di avere il beneficio esclusivo di qualche Messa settimanale e perfino mensile? E infine quanti si sono addirittura lanciati nella corsa ai primi della classe nel condannare la supposta disubbidiente protervia di Mons. Lefebvre e di tutta la Fraternità?

In questo contesto diventa davvero criptica la prospettiva del gran bene che potrebbe venire alla Chiesa dal passaggio della Fraternità alla legittimità canonica. Tranne che non si voglia pensare che ciò che non hanno fatto in 45 anni gli “altri”, ecco che miracolosamente lo potrebbero fare gli eredi di Mons. Lefebvre.
Piuttosto, bisognerebbe considerare seriamente se questa ottimistica prospettiva poggi su dati oggettivi  e su dei precedenti in grado di sostenerla.

Nel 1988, sulla base delle stesse istanze della Fraternità, ma in disaccordo con la rottura col Papa decisa da Mons. Lefebvre con le consacrazioni episcopali, nacque la Fraternità San Pietro. Nel 2001 nacque l’Amministrazione Apostolica di Campos, convinta che fosse giunto il momento di condurre la battaglia dall’interno. Seguita, nel 2006, dall’Istituto del Buon Pastore, ormai certo che si fosse prodotto uno squarcio nel muro modernista, attraverso il quale irrompere nella compagine cattolica postconciliare e sbaragliare il nemico. Senza contare altre piccole realtà, cosiddette “Ecclesia Dei”, tra le quali spicca per diversi motivi quella dei benedettini di Le Barroux.
Ebbene, dall’esame del lavoro svolto da questi Istituti, quale bilancio si può stilare, tale da giustificare la fondatezza della detta prospettiva?
Tralasciando la parentesi dello sconquasso del 2000, voluto da Roma per stroncare ogni velleità di fedeltà agli scopi fondativi, la Fraternità San Pietro ha finito col limitarsi alla diffusione della Messa tradizionale, dove e come ha potuto, forse seguendo le limitate istanze di una parte del mondo tradizionale anglosassone.
Tolti i primi anni di super attivismo internazionale del suo vescovo, l’Amministrazione Apostolica di Campos non ha prodotto alcuna riflessione minimamente paragonabile a quelle del suo padre spirituale, il compianto Mons. De Castro Mayer, né risulta che abbia inciso minimamente sull’andamento delle diocesi del Brasile, né tampoco su quella della stessa diocesi di Campos.
L’Istituto del Buon Pastore, seppure ancora troppo giovane perché si possa fare un bilancio, dà l’impressione che ancora non abbia deciso bene quale mestiere voglia fare da grande, visto l’alternarsi di titubanze e di decisioni, forse dovute all’incalzare degli avvenimenti.
Se poi si volge lo sguardo verso Le Barroux, si resta colpiti dalla forza con cui i benedettini tradizionali difendono e veicolano la liturgia tradizionale, ma si resta sconcertati dalla pari forza con cui alcuni di loro difendono la liturgia moderna e predicano e praticano le novità dottrinali partorite dal Concilio e allevate dal post-concilio. Ma questo è un discorso che, a Dio piacendo, faremo un’altra volta.
Nell’insieme, quindi, tolti i casi personali di chierici che si sono espressi anche con coraggio e decisione, l’esempio di questi Istituti porta a smentire ogni ottimismo circa la prospettiva in questione. Tutto parla del contrario, quasi a certificare che la legittimità canonica all’interno di una Chiesa che non è ancora guarita dall’infezione conciliare non produce alcun effetto positivo, anzi porta questi Istituti ad una sorta di omologazione, a subire una osmosi pericolosa, per la quale le infezioni del modernismo che passano nei diversi Istituti sono ben più numerose e virulente degli anticorpi che essi immettono nell’attuale compagine ecclesiale.

A queste considerazioni va aggiunto che, improvvisamente, subito dopo il famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, nel quale Benedetto XVI lancia la ciambella di salvataggio delle ermeneutiche contrapposte, quella giusta “del rinnovamento nella continuità” e quella sbagliata “della discontinuità e della rottura”, ecco che si aprono gli occhi di tutti, ecco che si capisce dove stava il trucco. Nell’ermeneutica… nell’ermeneutica che ancora oggi nessuno dice chi l’abbia sviluppata e fatta affermare, sia la giusta sia la sbagliata. Un altro mistero della Chiesa moderna!

Ed ecco che sorgono cardinali e vescovi, finora accuratamente defilati, a difendere questa spiegazione, come se loro per 40 anni fossero stati in un forzoso ritiro sabbatico. Ecco sorgere centinaia di teologi professionisti e avventizi che ci spiegano come questa teoria sia quanto di più intelligente è possibile, e che è proprio questo che loro hanno fatto in 40 anni, tramite i diversi pronunciamenti del Magistero, dai quali non è mai sortito niente di correttivo solo per colpa di quegli sconosciuti ermenueti della rottura che, guarda caso, hanno avuto la meglio, forse per il sostegno dato loro da quei “media” di cui parla Benedetto XVI nello stesso discorso.
Vuoi vedere che la terribile crisi in cui si dibatte la Chiesa da 45 anni è tutta colpa dei giornali?

Ed ecco che sorgono migliaia di chierici e laici che si dichiarano pronti ad innalzare la bandiera della difesa della Tradizione della Chiesa, imbracciando le armi del Concilio ingrassate e lustrate con la miracolosa ermeneutica della riforma nella continuità. Migliaia di cattolici che, dopo aver praticato per 45 anni gli insegnamenti dei loro Vescovi, scoprono che basta rileggerli secondo l’ermeneutica della continuità per farli coincidere con tutta la Tradizione, quasi che in questi 45 anni non fosse successo niente di strano, a parte un certo rimediabile qui pro quo.

Fino allo scoppio della bomba della liberalizzazione dell’uso del Messale del 1962. Un’illuminazione! Il Messale tradizionale non è mai stato abrogato! Ecco risolti tutti i problemi!
E via alla corsa alla Messa tradizionale. Chi per anni aveva snobbato e perfino denigrato gli archeologizzanti cultori del “vecchio”, ecco che si scopre difensore del “patrimonio da conservare”, in fedele ossequio alla “volontà del Santo Padre”.
La solita troppo umana metamorfosi dell’allineamento col comandante di turno.
Fedeli al Papa… sempre… sia quando emargina e praticamente proibisce la liturgia bimillenaria della Chiesa, sia quando al grido di “contrordine… compagni!”, ne rilancia e difende l’uso universale.
L’ha detto il Papa!

Meno male che le vie del Signore sono imperscrutabili e che Egli vede e provvede… nonostante le debolezze degli uomini… fino a trarre sempre il bene dal male. Meno male!
Perché è solo per questo che la liberalizzazione dell’uso del Messale tradizionale ha dato tanti buoni frutti nell’intero mondo cattolico.

Ora, quando si dice che la Chiesa trarrebbe un grande beneficio dalla regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X, oltre alla sottovalutazione degli elementi che abbiamo qui abbozzato, sembra si dimentichi lo stato oggettivo in cui si trova oggi la Chiesa, nelle persone di migliaia di vescovi, teologi e laici “competenti” che contano.
La Fraternità continua a dichiarare, per bocca de
l suo Superiore Generale, Mons. Fellay, e per bocca di altri chierici e laici che seppure non fanno testo, fanno comunque contesto, cosa che tanti trascurano negligentemente, … continua a dichiarare che la crisi non è finita, che anzi per certi aspetti non accenna neanche a finire. Che solo il Buon Dio potrà sanare le piaghe sanguinanti del Suo Corpo Mistico.
Esagera? È costretta dai suoi pregiudizi?
Forse… ma!

Da più di un anno si sono levate voci nel mondo cattolico che, partendo dal richiamato discorso di Benedetto XVI, hanno provato a “fare un discorso” serio sulla necessità di una revisione di tanti insegnamenti e di tante pastorali moderne. Oltre ai plausi e alle condivisioni che sono giunte da più parti, com’era naturale che fosse, e oltre alle grida di “scandalo” che subito si sono alzate dalle bocche contorte degli ancora tanti irriducibili “modernisti”, cos’è accaduto nel resto della compagine cattolica?

Con calma, ma con forza sempre più crescente, esponenti diversi del clero e dei laici “che contano”, hanno eretto una barricata a difesa di tutto ciò che i primi hanno chiamato in questione. Sono state scritte centinaia di pagine, utilizzate tutte le testate autorevoli e, cosa che oggi conta non poco, si sono mobilitati diecine di siti internet, alcuni sorti per la bisogna, per spiegare, dati liturgici e teologici alla mano, ovviamente!, che tali voci sono teologicamente e storicamente in errore, sia per la pochezza delle argomentazioni, sia per la relativa informazione degli autori, sia pure… cosa decisamente inaudita … per l’indebita ingerenza degli stessi in campi non di loro competenza. E tutta questa gente si è ritrovata d’accordo, e non a caso, su una sorta di ritornello che ripete che né il Concilio né il Papa possono sbagliare, perché sono assistiti dallo Spirito Santo. Quindi, se il Papa dice che l’unico errore sta nell’ermeneutica, dovrebbe essere evidente per ogni cattolico che è lo Spirito Santo che lo dice. Ogni altra considerazione, per quanto illustre, sarebbe priva del necessario appoggio soprannaturale e quindi senza valore, salvo quello della mera opinione personale. Per la semplice proprietà transitiva, è altrettanto evidente che solo coloro che difendono tutto in forza dell’ermeneutica della continuità sono nel giusto, perché beneficerebbero indirettamente della stessa assistenza di cui beneficia il Papa.
Il fuoco di sbarramento contro Mons. Gherardini e, ultimamente, contro il Prof. de Mattei, è solo l’esempio aggiornato di una tecnica della persuasione occulta e del ricatto disciplinare e teologico che da 45 anni viene usata nei confronti dei fedeli cattolici.
Questa tecnica poi, affinata dalla particolare competenza e dalla specifica preparazione, è la stessa usata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede in occasione dei colloqui con la Fraternità. Cortesia, educazione, disponibilità, carità, … ma una cosa è indiscutibile: nessun errore nel Concilio, né nelle sue applicazioni, dalla liturgia moderna all’ecumenismo, dalla collegialità alla libertà religiosa, dalla dignità dell’uomo all’imperativo per l’unità della Chiesa. Tutte le deviazioni prodottesi sono figlie dell’ermeneutica della rottura, già in parte corrette dall’ultimo magistero dei Papi e dal 2005 ancor meglio dal magistero di Benedetto XVI. Non rendersi conto di questa evidenza elementare significa solo avere “una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione”, contraddittoria perché “si oppone al Magistero universale della Chiesa, di cui è detentore il Vescovo di Roma e il Corpo dei Vescovi.”
Dopo più di vent’anni siamo ancora fermi allo stesso punto, con la sola sottile aggiunta dell’ermeneutica.
La crisi continua ancora.

Delineato questo mosaico, sorgono alcune domande: come potrebbe operare in questo contesto la Fraternità dopo avere accettato una legittima posizione canonica? Con quale efficacia? Su cosa e su chi potrebbe contare la Fraternità per condurre la necessaria battaglia di verità? Quanti fedeli cattolici arriverebbero a darle man forte? Quanti chierici si disporrebbero per affiancarne l’apostolato e la predicazione?
Abbiamo in mente, non solo i tanti cattolici che oggi sembrano ingrossare quell’area che potremmo chiamare “conservatrice”, ma anche quei cattolici che fino a ieri guardavano con una certa simpatia alla Fraternità e che da tre anni la guardano con sufficienza, poiché è evidente che per costoro la precondizione perché possano appoggiare domani la tanto auspicata battaglia “interna” della Fraternità è che questa condivida in toto i loro osanna per il Papa e per l’ermeneutica della riforma nella continuità.

In altre parole, tutti auspicano oggi che la Fraternità accetti la regolarizzazione canonica perché dovrebbe essere la Fraternità a togliere le castagne che loro hanno lasciato sul fuoco da 45 anni, e questo la Fraternità lo dovrebbe fare: o da sola oppure col concorso di tante buone volontà che già da oggi la invitano a sposare le loro posizioni e i loro convincimenti. Perché ciò che conta non sono le motivazioni della quarantennale battaglia per la Tradizione, che è poi quella che ha permesso a tanti perfino di esistere, ma le aggiornate esigenze della tanto auspicata “pace liturgica”, le evidenti urgenze della rilettura della Tradizione alla luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità, le impellenti istanze della più grande unità della Chiesa che finalmente comprenda tutti i credenti in Cristo: i cattolici tradizionali, i cattolici modernisti, i cattolici così così, i movimenti ecclesiali, i laici devoti, i cristiani separati e tutti coloro che vorranno condividere questo splendido tempo di riconciliazione e d’amore sotto la guida illuminata del Papa.



                                                                                                           Di Belvecchio

giovedì 9 giugno 2011

L'ERESIA E IL CANONE DELLA MESSA

Si parla tanto di “liberalizzazione” della Messa Tridentina, si cerca l’assenso dei fedeli sulla validità e sulla legittimità del Novus Ordo Missae (art. 19 della Instrutio UNIVERSAE ECCLESIAE), anzi in definitiva li si obbliga a darlo, ma da ormai tre anni a questa parte, leggendo ovunque articoli, forum e quant’ altro, non ho potuto far a meno di constatare il lassismo che vige dopo il Concilio vaticano II.
Di fatto ho notato l’assenza di qualsiasi atto disciplinare o pena canonica anche per gli errori più gravi ed evidenti, salvo quelle famose scomuniche comminate, poi tolte, ai vescovi della Fraternità San Pio X.

Santo Concilio di Trento

Quanto meno non ne sono a conoscenza.
In effetti “quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando”. (DISCORSO DI APERTURA DEL CONCILIO VATICANO II Giovanni XXIII 11 ottobre 1962)
Eppure anche per uno che da poco è tornato realmente nell’unico ovile di Cristo saltano agli occhi i gravi abusi del Novus Ordo Missae e non si tratta di validità o di illegittimità ma di Fede.
Nell’approfondire il significato del Santo Sacrificio mi sono reso conto immediatamente della totale differenza dei due Ordo ma soprattutto mi ha colpito il Canone della Messa.
Il Concilio di Trento, come ben si saprà, nel canone 9 riporta quanto segue: Se qualcuno dirà che il rito della chiesa Romana, secondo il quale parte del canone e le parole della consacrazione si profferiscono a bassa voce, è da riprovarsi; o che la messa debba essere celebrata solo nella lingua del popolo; o che nell’offrire il calice non debba esser mischiata l’acqua col vino, perché ciò sarebbe contro l’istituzione di Cristo, sia anatema.
In realtà lo stesso cap. V della Sess. XXII così riporta: E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta.
La maggior parte di questi segni traggono la loro origine dai precetti o tradizioni apostoliche. . Tali segni fortificano ed incoraggiano i fedeli nella loro meditazione sugli elementi divini contenuti nel Sacrificio della Messa. Per salvaguardare questa dottrina, il canone 7 commina la scomunica a coloro che ritengono che questi segni conducano all'empietà e non alla pietà. Questo è un esempio per ciò che ho detto sopra: questo genere di dichiarazione, ed il canone che la sanziona, comportano un senso eminentemente teologico e non semplicemente disciplinare. (Cardinal Stickler -L'attrattiva teologica della Messa Tridentina Testo della Conferenza tenuta a New York (U.S.A.)
Maggio 1995)

Santo Concilio Vaticano I
Vorrei, poi, riportare ciò che l’allora Card. Ratzinger, sebbene con la sua ormai proverbiale ermeneutica della continuità, diceva a riguardo:«Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della Preghiera Eucaristica (SIC!) sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della Celebrazione eucaristica.(ari SIC!) La mia proposta di allora era: da una parte l'educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l'indirizzo fondamentale del canone; dall'altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l'intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria,(doppio SIC!) quella comunitaria nella dimensione personale.(Triplo SIC!) Chi ha personalmente vissuto l'unità della Chiesa nel silenzio della Preghiera Eucaristica ha sperimentato che cos'è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito. Qui noi preghiamo davvero tutti insieme il Canone, sia pure nel legame con l'incarico particolare del servizio sacerdotale». J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 211.
D’accordo, il Card. Ratzinger non era per la recita a voce alta (ininterrotta), ma è possibile che la sua difesa si basi sulla ”condizione per la partecipazione” (actuosa) e non sull’autorità del Concilio di Trento?
Il Concilio di Trento avrebbe imposto il canone a voce bassa per non far partecipare i fedeli al Sacrificio?
Questa sarebbe la spiegazione teologica del canone a voce bassa?
Abbiamo visto sopra come tutti questi gesti siano atti di pietà, tesi all’adorazione, al ringraziamento, alla propiziazione ed all’impetrazione della grazia.
E’ possibile che si possa scavalcare, come niente fosse un anatema, una così grave condanna?
Quali tenebre oscurano le menti dei fedeli e soprattutto dei pastori?
Non è possibile che non si riesca veramente ad usare il buon senso, quello comune ad ogni retta ragione, fondato sulla realtà delle cose.
Se recito il canone a voce alta è anatema!
Sed, contra factum non valet argumentum  e l’anatema rimane!
Oppure è uno scherzo?
Forse è uno dei tanti bau bau che il buon Padre ci ha insegnato per farci rigare dritti?
Ma la fede è una cosa seria o no?
La virtù di religione per questi ministri è una cosa seria oppure no?
La Chiesa è indefettibile o no?
A volte mi sembra di essere nel telefilm “il prigioniero”, una serie degli anni 70 dove egli era la sola persona (ex spia) che si rendeva conto di essere stato imprigionato in un mondo irreale solo perchè aveva ancora memoria di quello reale.
Siamo in un'altra chiesa o è ancora la Chiesa Cattolica?
Come può un sacerdote celebrare il Santo Sacrificio sapendo che pronunciando il canone ad alta voce incorre in un anatema?
Possiamo parlare di eresia?
Vediamo.
Per lunghi secoli il Canone fu recitato ad alta voce, poi in modo che fosse udito solo dai ministri dell’altare; ma almeno dal IX secolo si recita a voce sommessa. Le ragioni di questa evoluzione si trovano nella preoccupazione di non rendere note ai profani le parole del Canone perché non fossero ripetute. Difatti ancora nel XIX secolo era proibito dalla Santa Sede di tradurre il Canone anche ad uso dei fedeli. (don Mauro Tranquillo)
Inoltre, questo articolo dell’"Institutio" contiene in tutta evidenza un’importante contraddizione con la rubrica dell’"Ordo" tradizionale, secondo cui il canone non viene pronunciato "a voce alta e intelligibile". Questo fatto merita un’attenzione del tutto particolare, visto l’anàtema lanciato dal concilio di Trento: 
"Se qualcuno dice che il rito della Chiesa romana secondo cui una parte del canone e le parole della consacrazione sono pronunciate a bassa voce dev’essere condannato […], sia anàtema". 
Dichiarando che è la natura delle parti "presidenziali" (dunque della preghiera eucaristica e delle parole della consacrazione) ad esigere che esse siano pronunciate a voce alta e intelligibile, l’"Institutio" pone un principio valido per tutti i tempi, e afferma quindi implicitamente che il concilio di Trento su questo punto si è sbagliato
. NOVUS ORDO MISSÆ Studio critico di Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira
Continuando con  il grande Dom Prosper Gueranger nella spiegazione della Santa Messa troviamo scritto:
Nel secolo XVII gli eretici giansenisti vollero introdurre la pratica di recitar il Canone della Messa a voce alta. Ingannato da essi, un successore di Bossuet, il cardinal de Bissy, aveva lasciato mettere la R. impressa in carattere rosso nel Messale che aveva fatto comporre per la sua Chiesa, secondo un diritto che i vescovi di Francia s'immaginavano allora d'avere. Questa R, in rosso significava naturalmente che il popolo doveva risponder ad alta voce con la parola Amen alle orazioni, e siccome non si può risponder a ciò che non si ode, bisognava di conseguenza che il sacerdote dicesse a voce alta tutto il Canone, che era precisamente ciò che desideravano i giansenisti. Questa pericolosa innovazione suscitò vive ed energiche proteste, ed il cardinal de Bissy stesso corresse questo suo errore.
Anche gli eretici giansenisti furono condannati da Papa Pio VI nella bolla “Auctorem Fidei” (Dell’Eucarestia §6).
In maniera incredibilmente contraria a quanto affermato nel Concilio di Trento l’Institutio Generalis riporta:”Congiunge le mani. Nelle formule seguenti le parole del Signore siano dette con voce chiara e distinta, come è richiesto dalla loro natura”.
Quale natura?
Non la stessa natura di quello del concilio di Trento!
Questo in definitiva è come dire: Il Concilio di Trento ha sbagliato!

Concilio Vaticano II

Ma se furono degli eretici a voler introdurre la pratica di recitar il Canone della Messa a voce alta e vi sono alcuni uomini di chiesa che vogliono che il canone sia recitato a voce alta, secondo un semplice ragionamento logico si conclude, dalle premesse, che questi ultimi uomini di chiesa sono come gli eretici!
In buona compagnia di tali uomini chiesa troviamo Lutero e Crammer che già avevano introdotto la recita del loro canone a voce alta.

L’angelico dottore, infatti, insegna, prendendo spunto da sant’Agostino (lettera 43,1), che non può dirsi eretico chi, seppur in materia di fede, difende la propria errata opinione con l’intenzione di cambiarla una volta provata la falsità della propria tesi: "Se uno difende senza animosità e senza ostinazione la propria opinione, sia pure falsa e perversa, e cerca con la dovuta sollecitudine la verità, pronto a seguirla quando la trova, non può essere annoverato fra gli eretici" , continua dicendo: poiché non ha la determinazione di contraddire l'insegnamento della Chiesa…….. su cose riguardanti la fede, ma che la Chiesa non aveva ancora determinato, come nel caso di quelli che recitavano il canone ad alta voce prima del IX secolo, come nella frase riportata di Don mauro Tranquillo.
Sarebbe invece eretico chi si opponesse ostinatamente a una simile definizione quando tali cose fossero state determinate dall'autorità della Chiesa universale (ST p. II-II Q 11 a.2 ad 3).
Sebbene nella ST san Tommaso citi l’autorità pontificia, nulla cambia, poiché in questo caso l’autorità è quella del Concilio di Trento (Magistero straordinario infallibile).
Rientra tra i dogmi definiti in maniera solenne quello riguardante il Sacrificio della Messa.
“Assenso dovuto a questi dogmi: assoluto alla luce della fede divina.
Chi lo nega: incorre nell'anatema e pronuncia un'eresia contro la fede divina, fa peccato mortale diretto contro la fede, deve subire una pena canonica”.
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Secondo voi, nella Chiesa di Cristo sono eretici coloro che abbracciano qualche idea corrotta o cattiva, e corretti resistono con ostinazione, rifiutandosi di emendare i loro insegnamenti pestiferi e mortiferi e insistendo invece a difenderli".? (Agostino, De civ Dei 18,51)
Inoltre questi stessi, difendono senza animosità e senza ostinazione la propria opinione, sia pure falsa e perversa?
Secondo voi, cercano con la dovuta sollecitudine la verità, pronto a seguirla quando la trovano? 
Tali uomini della Chiesa di Cristo possono essere annoverati fra gli eretici?
Che cosa possono rispondere a queste nostre contestazioni: se esibiscono documenti scritti, li esibiamo pure noi; se affermano che i nostri sono falsi, non si sdegnino se diciamo altrettanto dei loro. Nessuno cancella dal cielo il decreto di Dio, nessuno cancella dalla terra la Chiesa di Dio.(Agostino, Lettera 43 9,27)

Stefano Gavazzi